
          
          27 
          ottobre 2014 - Un gettone per l'iPhone
		  
          26 
          ottobre 2014 - Il 41% di Renzi? Un bluff
		  
          7 
          ottobre 2012 - I dirigenti
		  
          7 
          agosto 2012 - Vivere al di sopra dei propri mezzi
		  
          18 
          maggio 2012 - La questione dell'età
		  
		  11 
          maggio 2011 - Tagliare le tasse, tagliare la cultura
		  
		  28 
          aprile 2011 - Le elezioni per il Comune di Milano
		  
          12 
          giugno 2009 - Perché sono scomparsi i «dischi»
          
          3 
          gennaio 2009 - Quelli che hanno fatto il Sessantotto
          
          8 
          dicembre 2008 - Lo straordinario spopola
          
          6 
          ottobre 2007 - La linea del partito e quella dell'intellettuale
          
          23 
          gennaio 2007 - Musica d'arte e di consumo
          
          18 
          dicembre 2006 - Minimo comune denominatore
          
          1 
          novembre 2006 - Quanto vale la musica in Italia?
          
          18 
          luglio 2006 - Saluti
          
          27 
          marzo 2006 - La dichiarazione IVA di Prodi
          
          13 
          marzo 2006 - Se ne vado
          
          2 
          novembre 2005 - Rock e lento
          
          1 
          luglio 2005 - Live Eight: dove sono i nostri Billy Bragg?
          
          26 
          maggio 2005 - You'll Never Walk Alone
          
          25 
          maggio 2005 - Stalingrado e La fabbrica con gli archi
          
          18 
          maggio 2005 - La laurea a Vasco Rossi
          
          9 
          maggio 2005 - Grazie
          
          3 
          maggio 2005 - Dimissioni dal Mantova Musica Festival
          
		  
		  27 ottobre 2014 - Un gettone per l'iPhone
               Poco meno di trent'anni fa, quando il pistola che ora è a
                 Palazzo Chigi probabilmente era ancora nei lupetti (per gli
                 scout era troppo giovane),
                 accompagnai in giro per l'Italia Steve Furber, uno dei tre progettisti
                 dell'ARM (Acorn Risc Machine), il primo chip a tecnologia RISC
                 a basso
          costo.
               http://en.wikipedia.org/wiki/ARM_architecture
               Furber teneva conferenze su quella tecnologia, io cercavo di
                 attirare
                 l'attenzione sull'Archimedes, un personal computer RISC (il
                 primo), perché
                 lo si installasse nelle scuole e nelle università.
               Quella tecnologia è stata adottata in seguito per la
                 progettazione di chip
                 che a lungo hanno continuato a chiamarsi ARM, utilizzati in
                 svariate
                 applicazioni industriali, fra le quali la telefonia cellulare.
                 Ogni iPhone
                 di questo mondo (come tutti gli smartphone equivalenti) si basa
                 su quella
                 tecnologia.
               Il pistola di Palazzo Chigi, che per essere stato una volta
                 a Silicon Valley se la tira da "moderno", dimentica
                 che se le nuove tecnologie oggi sono così
                 sviluppate è perché qualcuno le ha progettate
                 e fatte crescere, trenta e più
                 anni fa. Molti di quelli che ne sono responsabili ora hanno
                 più di sessanta
                 o settant'anni (Steve Jobs ne compirebbe sessanta l'anno prossimo).
               Questi sarebbero i "vecchietti" con i quali se la
                 prende Renzi.
               "Saria mi el pistola, el pistola te set ti..." (Jannacci, "T'ho
                 compraa i calzett de seda", 1964).
                 
                 26 ottobre 2014
                 - Il 41% di Renzi? Un bluff
               È dal giorno dopo le le lezioni europee che viviamo sotto la
                 minaccia (che per alcuni può essere anche gradita) di quel 41%
                 che il PD ha ottenuto in quell'occasione, e che Matteo Renzi
                 dà per scontato che otterrebbe anche
alle prossime elezioni politiche.
Si tratta (vale la pena di puntualizzare) del 40,81% dei voti validi, che
sono stati 27.371.747 (a me i conti riportati sul sito del Ministero degli
Interni non quadrano perfettamente, ma la differenza è di poche migliaia).
Aveva votato il 58,68% degli aventi diritto; a quella quota vanno poi tolte
le schede bianche, quelle nulle, quelle contestate o non assegnate. I voti
attribuiti al PD sono stati 11.172.861.
Alle ultime elezioni politiche l'affluenza
era stata del 75,16%, il 28% in più (si deve calcolare il calo o l'incremento
percentuale, non fare la differenza in punti percentuali), con 35.254.807 votanti.
Per ottenere una percentuale del 40,81% con un'affluenza uguale a quella delle
politiche del 2013, il PD dovrebbe raccogliere poco meno di 14.400.000 voti (giusto
il 28% in più rispetto alle europee). Nel 2013 – con quell'affluenza – ne prese
8.644.187, pari al 25.42%: quel famoso 25% che Renzi oggi paventa se il suo
partito ritornasse sulla "linea Bersani".
Ora, l'affermazione di Renzi che il
PD possa ottenere il 41% alle politiche,
"come alle europee", può forse ingannare quella grande massa di italiani che
non sanno cos'è una percentuale, come si calcola, e che operazioni si fanno
con quei valori. Ma che il PD possa ottenere quattordici milioni e passa di
voti in una consultazione politica, con alle spalle tutta la storia delle
differenze fra risultati europei e nazionali (ricordate il successo del PCI
alle europee, dopo la morte di Berlinguer?), fa davvero riflettere.
Se ne prendesse 11 milioni (gli stessi delle europee), che sarebbe comunque una
grande crescita rispetto al PD delle politiche 2013, otterrebbe il 31% circa.
Su questa cifra sono disposto a scommettere.
Quello di Renzi è un bluff. Qualcuno dovrebbe andarlo a vedere.
		  
	    7 ottobre 2012 - I dirigenti
               Ho trovato molto interessanti le dichiarazioni di un consigliere
                 regionale lombardo a proposito dei previsti tagli agli emolumenti
                 della sua categoria. Senza quegli ottomila euro di stipendio
                 (sono in realtà meno di settemila, ahilui, ma poi ha
                 altre entrate), come farà ad arrivare alla fine del mese?
                 Quando è stato eletto, facendo conto su quello stipendio
                 e sul vitalizio al termine del mandato, si è impegnato
                 per un mutuo costoso. Ma poi il vitalizio è stato abolito,
                 e ora... Di fronte all'obiezione che si tratta comunque di compensi
                 più che sostanziosi, il consigliere replica che prima
                 di essere eletto era un dirigente del settore privato: se avesse
                 saputo che da consigliere regionale avrebbe guadagnato di meno
                 non si sarebbe candidato. 
                 
                 Devo dire che non mi stupisce tanto
                 l'idea che il valore di una carica pubblica debba essere misurato
                 soltanto in base ai guadagni che la carica produce (visto il
                 partito dal quale proviene il consigliere in questione). Mi
                 colpisce di più l'appello a quello che sembra essere
                 un sentimento largamente condiviso, non solo "a destra",
                 e cioè che sia giusto che un dirigente privato guadagni
                 molto, e che la qualità dei dirigenti privati sia necessariamente
                 alta. Dal che si deve concludere che se si vuole che le istituzioni
                 pubbliche abbiano dirigenti di qualità, devono essere
                 pagati almeno quanto quelli delle aziende private, che sono
                 di qualità per definizione. 
                 
                 Infatti, si parla della "casta" dei
                 politici, di quella dei magistrati, di quella (capirete...)
                 dei professori, ma mai di quella dei "manager" (così come
                 li si chiama qui da noi). Che un dirigente privato guadagni
                 tanto, tantissimo, è giusto, perché i dirigenti
                 privati sono bravi. 
                 
                 A dire la verità, avendo lavorato
                 per una quindicina di anni nel settore privato, e in un ambito
                 di quelli più competitivi, posso testimoniare che fra
                 i dirigenti delle aziende italiane ci sono anche sonorissime,
                 grandiose teste di cazzo. Ma vi ricordate quando i personal
                 computer della Olivetti facevano concorrenza a quelli della
                 IBM? Che fine gli hanno fatto fare? E lo sappiamo che la tecnologia
                 dei chip che oggi fanno funzionare gli smartphone la sviluppò una
                 piccola società inglese, acquistata dalla Olivetti, e
                 venne poi dismessa (quasi come il sistema common rail per i
                 motori diesel, sviluppato dalla Fiat e ceduto alla Bosch)? Ricordo
                 una riunione nella quale dovevo spiegare i principi dell'architettura
                 client-server allo staff di una grande compagnia telefonica.
                 Il dirigente mi disse: "Parli pure liberamente, qui siamo
                 tutti di estradizione tecnica!" La sua competenza tecnica
                 non era superiore, vi giuro, a quella linguistica. 
                 
                 È un
                 fenomeno globale. Chi ha visto The Inside
                 Job ricorderà le
                 facce da beoti (o da criminali, o entrambi) di alcuni dei dirigenti
                 e consulenti di grandi istituzioni finanziarie statunitensi,
                 responsabili del disastro del 2008. Molti sono ancora al loro
                 posto e guadagnano milioni. 
                 
                 È il risultato ovvio, direi,
                 di trent'anni di lotta di classe dall'alto in basso, fin dai
                 tempi di Reagan, senza apparente resistenza da parte dei partiti
                 (ma anche degli intellettuali) "di sinistra". "Tecnico" è bello
                 (come si vede dal nostro governo attuale) e merita, per difetto
                 (default, se preferite) paghe sempre più alte. La selezione
                 meritocratica la devono passare gli altri, i lavoratori. Chi è "tecnico" ha
                 meritato per sempre, a partire dal giorno in cui è stato
                 assunto come dirigente, spesso per meriti che con la competenza
                 non hanno nulla a che fare. 
                 
                 Ma il falcetto su l'uve iroso scende
                 come una scure, e par che
                 sangue cóle... 
                 (G. Carducci, Ça
               ira).
        
		  
		       7 agosto 2012 - Vivere al di sopra dei propri mezzi
               Non posso resistere a commentare il ritornello che da mesi
                 circola nei discorsi di politici (non solo italiani) e opinionisti,
                 e che mi raggiunge
                 perfino qui, in mezzo all'Egeo: che per tanto tempo "abbiamo
                 vissuto al di
        sopra dei nostri mezzi" e ora "ne paghiamo le conseguenze".
               Faccio una certa fatica a identificarmi in quella prima persona
                 plurale. Non
                 posso negare che a lungo (e specialmente in certi periodi, e
                 sotto certi
                 governi) lo stato italiano si sia indebitato oltre ogni ragionevolezza,
                 sia
                 indulgendo nelle spese, sia rinunciando a incassare e tollerando
                 un'evasione
                 fiscale enorme. Ho sempre pensato (forse senza grande acutezza
                 scientifica,
                 perdonatemi) che un meccanismo tipico del processo di indebitamento
                 dello
                 stato italiano fosse l'emissione di buoni del tesoro, gran parte
                 dei quali
                 venivano acquistati da "risparmiatori" con il frutto
                 della loro evasione
                 fiscale, creando così un debito dello stato verso coloro
                 nei confronti dei
                 quali avrebbe dovuto essere creditore.
               Ma, in ogni caso, io (scusate la personalizzazione)
                 non c'entro. Ho sempre
                 votato contro i governi che hanno promosso quella politica.
                 Ho sempre pagato
                 le tasse, senza che mi restasse un centesimo da investire in
                 borsa o in
                 buoni del tesoro. Da quando lavoro direttamente per lo stato,
                 nell'università, ho percepito compensi e stipendi ridicoli
                 rispetto ai miei
                 colleghi di qualunque altro paese europeo. Non ho beneficiato
                 di sussidi e
                 regalie di alcun tipo, e quando ho avuto bisogno della sanità pubblica
                 credo
                 di aver pagato tutto fino all'ultimo centesimo attraverso le
                 imposte sui
        miei (modesti) redditi.
               Non sono certamente il solo. Anzi. Credo che una larga percentuale
                 dei miei
                 concittadini si possa identificare in questo quadro e in questi
                 comportamenti. Quindi, non "abbiamo" vissuto al di
                 sopra dei "nostri" mezzi.
                 "Hanno" vissuto al di sopra dei "nostri" (ahinoi)
                 mezzi. Chi? Quei
                 farabutti, dei quali si potrebbe ricostruire abbastanza facilmente
                 l'elenco.
               E che, in buona parte, e a lungo, hanno sostenuto quella politica
                 di
                 indebitamento anche per restare abbarbicati al potere e per
                 impedire ogni
                 rinnovamento politico-culturale della società italiana,
                 perseguendo sempre e
                 comunque gli obiettivi del neoliberismo più aggressivo.
        Quindi, diteglielo (diciamoglielo), ai banchieri tedeschi,
                 finlandesi, ai grilli parlanti della finanza e dell'industria:
                 noi non
                 abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, e se lo stato
                 italiano si è
                 indebitato lo ha fatto spesso perché il nostro paese
                 restasse stabilmente nel loro campo. Perdonate l'insistenza: loro hanno
                 vissuto al di sopra
          dei nostri mezzi.
               
	 
	             18 maggio 2012 - La questione dell'età
               A proposito del recente e rinnovato dibattito sulla gerontocrazia
                 (certamente fondato, per chi si occupi di politica, o di università,
                 o di altri settori congelati in Italia nello stato in cui si
                 trovavano decenni fa): non trovate curioso come l'età tenda
                 a diventare l'unico fattore, categoria, concetto, su cui basare
                 ragionamenti sulle prospettive della società? Come se
                 non esistessero il genere, la classe, la cultura, eccetera?
                 Come se la vera e rapida soluzione di tutti i mali presenti
                 sia costituita dalla cessione immediata, da parte dei "vecchi",
                 del loro "potere" in favore dei "giovani",
                 così da metterli finalmente
                 in condizione da sviluppare le loro "maggiori energie" e
                 la loro "creatività"?
                 Come se non si trattasse di rimuovere dalle loro posizioni di
                 comando coloro che le occupano indegnamente (non sempre e non
                 solo in ragione della loro età),
        ma semplicemente di fare piazza pulita di tutti gli ultracinquantenni?
               Vi pongo, dunque, questa domanda. Secondo voi, i trader che
                 scommettendo sul fallimento di interi Stati stanno mandando
                 in rovina l'economia mondiale e le esistenze di milioni (miliardi?)
                 di persone giovani e meno giovani, quanti anni hanno?
               Potete trovare la risposta alla penultima riga dell'articolo "Dal
                 mercante di Venezia alle follie di JPMorgan", di Paul Kennedy,
                 a pagina 34 de l'Internazionale uscito oggi.               
               
                 11 maggio 2011 - Tagliare le tasse,
          tagliare la cultura
 
          
          Prima di passare a quello di cui vi volevo scrivere, una nota
                 importante. Dovunque voi siate, dovunque votiate per le prossime
                 comunali (se votate), non tralasciate di dare un voto alla lista.
                 A una lista, e a un candidato di lista (uno solo).
                 Se si vota solamente per il candidato sindaco, magari per uno
                 scrupolo di unità e contro le divisioni tra i partiti,
                 si rischia che quel sindaco, se eletto, non abbia una maggioranza
                 in Consiglio.
          (E poi, carissimi/e milanesi, se vi va di votare per me, nella
        lista di SEL, fate pure...).
               Volevo accennarvi ai finanziamenti alla cultura, e ai relativi
                 tagli: un tema che si discute molto.
                 C'è una tendenza, qui da noi, a considerare i tagli alla
                 cultura (intesa nel senso più ampio, che include scuola
                 e università) come una specie di fenomeno atmosferico:
                 c'è la crisi, qualsiasi governo dovrebbe risparmiare,
                 un governo di destra - "nemico" della cultura, d'accordo
                 - taglia lì.
                 È tutto vero, ma forse perdiamo dei collegamenti.
                 La crisi del sistema basato sulla speculazione selvaggia c'è,
                 e non passerà se non cambia quel sistema (avete visto
                 il bellissimo documentario The Inside Job?). Ma i tagli alla
                 cultura non ne sono una conseguenza diretta, "naturale".
               Il bilancio dello stato migliorerebbe se ci fossero maggiori
                 entrate fiscali, e le entrate fiscali sarebbero maggiori se
                 si recuperasse l'evasione e se si esigesse il giusto dalla fascia
                 più ricca (sempre più ricca) della popolazione.
                 Ma i governi di destra invece tagliano le tasse ai ricchi. E
                 per recuperare risorse tagliano la cultura. È un puro
                 collegamento contabile? Minori entrate di qua, minori uscite
                 di là?
               No. George Lakoff, lo scienziato cognitivo e politologo statunitense,
                 consulente per la campagna di Barack Obama, ha spiegato il meccanismo
                 in un libro pubblicato durante la presidenza Bush: Don't Think
                 of an Elephant (Non pensare all'elefante, Fusi Orari, Roma,
                 2006). I tagli (o i mancati aumenti) alle tasse dei più ricchi
                 contribuiscono a garantire ai ceti più affluenti la possibilità di
                 far frequentare ai figli università private e di accedere
                 ai think tanks delle fondazioni culturali sostenute dai conservatori.
                 D'altra parte, i figli delle famiglie meno ricche fanno fatica
                 ad accedere all'università. E nel frattempo i tagli alla
                 cultura rendono sempre meno efficace l'istruzione pubblica,
                 e colpiscono direttamente le professioni intellettuali tradizionalmente
                 più affini ai settori progressisti della politica. È una
                 strategia deliberata, quella di colpire le istituzioni culturali
                 filo-democratiche, mentre si favoriscono le carriere dei figli
                 dei ricchi.
               È un fenomeno solo statunitense? Ne siamo immuni?
                 Tutt'altro. Almeno se ricordiamo che la politica di tagli così ben
                 orchestrata dall'asse Tremonti-Gelmini-Bondi (pace all'anima
                 sua) risale perlomeno al proclama del 1993 (che dovrebbe essere
                 più noto di quanto non sia) di Giancarlo Lombardi, allora
                 vicepresidente di Confindustria e successivamente ministro della
                 Pubblica Istruzione nel governo Dini (eh...).
                 Lombardi disse che l'obiettivo della formazione nel futuro avrebbe
                 dovuto essere quello di creare "menti d'opera emancipate
                 dal sapere critico".
                 Questa, carissimi e carissime, è la chiave della distruzione
                 della scuola e dell'università pubbliche pianificata
                 dalla destra italiana.
               A sinistra c'è qualche imbarazzo a resistere: ricordo
                 un articolo recente di Goffredo Fofi sull'Unità (30 aprile
                 2011). Un'incredibile difesa dei tagli (appunto, come se fossero
                 nell'ordine naturale della cose), un attacco ai "finti
                 intellettuali", che starebbero a lagnarsi della fine dei
                 privilegi basati sull'impiego del denaro pubblico. È come
                 se piovessero bombe (di un bombardamento deliberato e mirato)
                 e si facessero le pulci a quelli che si nascondono nei rifugi
                 (ma come ha detto qualcuno, quelli di sinistra si lavano poco).
               Ma è ora, appunto, di voltare pagina e di cambiare aria.
                 Ci siamo vicini, no?
                 
		         
		         28 aprile 2011 - Le elezioni per il Comune
          di Milano
 
          
          Di solito a un candidato si chiede di presentare un programma,
                 o almeno un elenco convincente di valori in cui crede e di cose
                 che vorrebbe fare se eletto. Nonostante queste elezioni (come
                 tutte negli ultimi vent'anni) si siano trasformate in un referendum
                 sulla democrazia, e nonostante sia chiaro che a Milano l'obiettivo
                 principale sia quello di togliere la città dalle mani
                 del malaffare e di dare un segnale fortissimo alla politica
                 nazionale, mi permetto di rubare un po'  del vostro tempo
                 per dirvi alcune delle cose per cui mi impegnerei se fossi eletto,
        e che vorrei comunque che fossero realizzate.
               Milano non è una metropoli. Forse lo è stata,
                 forse potrebbe diventarlo, ma malgrado la supponenza di chi
                 l'amministra da decenni, è una città modesta,
                 sotto molti aspetti inferiore (ad esempio, per benessere di
                 chi ci abita) a tante città italiane di provincia. Qualunque
                 sia la categoria in cui la vogliamo includere, Milano potrebbe
                 migliorare, e di molto, se chi l'amministra avesse la voglia
                 o il tempo di tener conto dell'esempio delle metropoli europee,
                 magari visitandole e studiandole. In altro momento e in altra
                 sede (sul mio sito) parlerò di vita musicale, di cultura,
                 di università, del mio mestiere: qui vorrei parlare brevemente
                 di trasporti, che coinvolgono me, come voi, come tutti i cittadini,
                 per una durata giornaliera spesso non inferiore a quella del
                 lavoro. 
               Il confronto di Milano, non dico con Parigi e Londra, ma con
                 Barcellona, Berlino (che solo poco più di vent'anni fa
                 era un avamposto diviso da un muro), o perfino Atene è sconsolante.
                 Pensate che aeroporto ridicolo sia la Malpensa (e quanto se
                 n'è parlato!) rispetto a quelli ai quali dovrebbe fare
                 la concorrenza. Provate ad arrivare dalla Malpensa con l'omonimo
                 'Express', senza trovare una scala mobile in discesa che vi
                 porti al livello dei treni della metropolitana. E lo stesso
                 per la Stazione Centrale: anche a usare i bizzarri tapis-roulants
                 che sembrano servire solo ad allungare il viaggio, si deve poi
                 trascinare la valigia su scale in salita e in discesa, in un
                 corridoio puzzolente. Se e quando faranno davvero la linea della
                 metro che da Linate porta in città, ci si potrà arrivare
                 in ascensore come nel resto del mondo, o ci sarà qualche
                 altro trucco per accontentare la lobby dei tassisti?
               Pensate agli orari della metropolitana: molti treni di superficie
                 partono dalle varie stazioni di Milano anche un'ora prima che
                 la metropolitana abbia aperto. E perché Milano non ha
                 una stazione degli autobus? Non se ne poteva fare una sulla
                 superficie delle ex-Varesine, risparmiando un paio di torri
                 che resteranno vuote? No, meglio progettare un'autostrada sotterranea
                 da Linate a Rho, con l'obiettivo pazzesco di mettere il traffico
                 e l'inquinamento sottoterra (ma gli automobilisti respireranno
                 i loro gas di scarico, o questi saranno pompati fuori nella
                 città?).
               Alcuni di questi vi sembreranno dettagli inessenziali. Ma è attraverso
                 la somma di tutti questi dettagli che si crea una città dove
                 usare la propria auto è meno conveniente che ricorrere
                 al trasporto pubblico. Non ci sono, poi, ecopass e altre tasse
                 che tengano: se metro, bus e tram sono scomodi (in quale c'è posto
                 per mettere una valigia, anche quando passa da stazioni o aeroporti?),
                 se la guida è a strappi e i passeggeri meno agili sono
                 sbattuti avanti e indietro (nei "nuovi" tram, soprattutto),
                 se le corsie preferenziali sono invase dalle auto (anche a causa
                 dei parcheggi in seconda fila) e nessuno interviene, chi resiste – potendo – a
                 prendere la macchina? E se le piste ciclabili non esistono,
                 o hanno percorsi indifesi e assurdi, che alternative si offrono?
               Alcune delle città che ho citato hanno un traffico paragonabile
                 a quello di Milano (ma sono molto più grandi), altre
                 anche peggiore (ma hanno rinnovato i loro trasporti pubblici
                 più di recente e più rapidamente). Nessuna però offre
                 l'immagine di incapacità di affrontare e risolvere i
                 problemi del traffico che Milano e i suoi amministratori hanno
                 presentato, da anni e anni. La speculazione, il disprezzo per
                 la volontà dei cittadini e le esigenze dei più deboli
                 (pensiamo alle vicende dei parcheggi sotterranei), le lobbies
                 economiche e politiche fanno premio su tutto.
        Ne vogliamo uscire?
        
          
          12 giugno 2009 - Perché sono scomparsi 
          i «dischi»
          
          Sono appena tornato da un viaggio all’estero, dove ho potuto constatare 
          la sparizione graduale (ma implacabile) dei negozi di «dischi», 
          anche in città di più di tre milioni di abitanti. Ad Atene 
          reggono un paio di megastore, ma lo spazio è occupato sempre 
          di più da dvd e giochi; a Smirne non sono riuscito a trovare
          un solo negozio che avesse dei cd audio: tutti i grandi negozi che
          ho incontrato vendevano solo dvd e giochi, e quando in un quartiere
          periferico ho scoperto una bottega che sembrava promettere delizie
          musicali orientali, ho trovato che gli unici supporti audio erano cassette,
          e il resto erano dvd e dischi blue-ray.
          
          Come ormai succede con sempre maggior frequenza, più ci si allontana 
          dal «centro» e più si vede il futuro: il consumo 
          di musica registrata su supporti fa parte di uno stile di vita del passato, 
          giustificato dall’esistenza di appassionati ormai avanti con gli 
          anni, che hanno ancora le loro collezioni e i loro apparecchi. Quasi 
          impossibile, tra l’altro, trovare dei lettori di cd, se non sulle
          bancarelle.
          
          Vi invito a dare un’occhiata al grafico pubblicato qualche giorno
          fa sul sito del Guardian. Dimostra la fondatezza di alcune
          valutazioni critiche su declino dell’industria fonografica, tra 
          cui le mie (a partire da molti anni fa). Fin dai tempi dell’allarme 
          sulla «copia privata», nei primi anni ottanta, le case discografiche 
          hanno sostenuto che qualunque appropriazione di una registrazione attraverso 
          pratiche non legali costituisse una vendita persa. Convinti della validità 
          di una vera e propria assurdità economica, cioè la disponibilità 
          infinita da parte del consumatore, i discografici affermavano che se 
          invece di copiare un fonogramma il consumatore lo avesse comprato, avrebbe 
          avuto comunque i soldi per comprarne un altro; si accanivano dunque 
          (e lo avrebbero fatto per venticinque anni a seguire) contro i consumatori 
          più amanti della musica e più attivi, chiamandoli “pirati”, 
          nella convinzione che se avessero smesso di copiare (o, più tardi,
          di scaricare dalla rete) avrebbero comunque avuto le risorse economiche
          per comprare tutto quello che desideravano ascoltare.
          
           
 
          
          
          Il grafico del Guardian, che si riferisce alle vendite in
          Gran Bretagna negli ultimi dieci anni di prodotti tipicamente consumati
          dal pubblico interessato anche alla musica, registra comunque un’espansione 
          del mercato, ma ci fa vedere che la quota della «musica» 
          (cioè dei supporti fonografici) è in continua contrazione. 
          È vero, ed è anche ovvio, che se è possibile procurarsi 
          lo stesso bene in una forma più agile, o addirittura senza pagarlo, 
          si potranno spendere i propri soldi anche per procurarsi altri tipi 
          di beni; ma quello che si vede dal grafico in modo molto chiaro è 
          che ci sono altri beni che attraggono in modo irresistibile le risorse 
          altrimenti dedicate alla musica: in particolare, i giochi. I giochi 
          sono in decisa espansione, e sono gli unici responsabili dell’allargamento 
          del mercato, essendo la «musica» in calo e i dvd ormai
          stabili da qualche anno.
          
          Il grafico non mostra altri consumi concorrenti: telefoni cellulari
          e relativi servizi, fotocamere e videocamere digitali, computer e Internet,
          eccetera. Negli anni che i discografici ancora mitizzano (e nei quali,
          bisogna dirlo, si vendevano molti meno supporti fonografici di oggi)
          questi consumi non esistevano. Il verso della famosa canzone dei Rolling
          Stones, «what can a poor boy do except to sing for a rock ‘n’ 
          roll band» non segnalava solo la condizione dei giovani londinesi 
          rispetto agli studenti politicizzati del resto d’Europa, ma indicava 
          l’orizzonte limitato delle possibilità di servirsi della 
          tecnologia in modo creativo. Nel ’68 lo «stereo», 
          insieme alla radiolina a transistor, era l’unica tecnologia elettronica
          di massa.
          
          Oggi ampie fasce della popolazione preferiscono avere un cellulare,
          un pc, una videocamera, una Playstation, che una collezione di «dischi». 
          Molti giovani (anche non tanto giovani) preferiscono far tardi la sera 
          cimentandosi in rete in un gioco di ruolo che ascoltando l’ultimo 
          album. E dunque quei tempi non torneranno più, cari discografici,
          neanche se un governo compiacente mettesse un poliziotto vicino al
          computer di ogni possibile downloader.
          
          
          3 gennaio 2009 - Quelli che 
          hanno fatto il Sessantotto
          
          Si parla molto di “quelli che hanno fatto il Sessantotto”.
          Chi sono?
          Il Sessantotto, come tutti sanno, copre un periodo abbastanza lungo:
          grosso modo dal 1967 (prima occupazione della Cattolica di Milano)
          o dai primi mesi del 1968 (Valle Giulia a Roma), alle elezioni politiche
          del 1976 (il 20 giugno, quelle del “sorpasso” mancato)
          o ai primi mesi del 1977.
          
          Le prime occupazioni furono guidate da studenti che frequentavano gli
          ultimi anni dell’università, e che dunque avevano intorno 
          ai 22-23 anni (come Mario Capanna, nato nel 1945). Una parte non piccola 
          dei militanti che si unirono ai movimenti studenteschi lo fecero negli 
          anni più duri della “strategia della tensione”, quindi 
          tra il 1969 e il 1975: chi entrò all’università 
          nel 1969 era nato nel 1950, mentre gli studenti delle medie superiori
          che affollavano le manifestazioni milanesi del 1975 (per le morti di
          Varalli e Zibecchi) erano nati nel 1957 o 1958.
          
          La “generazione del Sessantotto”, quindi, copre una dozzina 
          abbondante di anni (di nascita): tutt’altro che una sola leva, 
          tutt’altro che omogenea dal punto di vista delle condizioni di 
          vita durante l’infanzia e l’adolescenza e da quello della 
          formazione culturale e politica. In quell’arco di leve (da quella 
          del ’45 a quella del ’58), naturalmente, solo una minoranza 
          “fece” il Sessantotto. Non tutti partecipavano alle manifestazioni, 
          è ovvio, e una quota ancora più piccola militava in organizzazioni 
          politiche (e se no, la famigerata “maggioranza silenziosa” 
          da dove sarebbe venuta fuori?).
          
          Il famoso “rapporto” del prefetto di Milano Libero Mazza 
          del 1970 parlava di migliaia di estremisti armati; fu causa di polemiche 
          e interrogazioni parlamentari il fatto che Mazza equiparasse a terroristi 
          (potenziali o in senso proprio) tutti i militanti della sinistra extraparlamentare. 
          Milano allora aveva un milione e seicentonovantamila abitanti: è 
          chiaro che quelle migliaia (armati o no che fossero: ma quelli armati 
          per davvero erano probabilmente poche decine) erano una decisa minoranza 
          della popolazione, anche nella fascia demografica più coinvolta. 
          Insisto su Milano, perché fu uno dei centri più rilevanti 
          di quella stagione: se si estende il discorso all’Italia intera, 
          è facile dedurre che quelli che “fecero” il Sessantotto 
          furono davvero pochi. Molti, moltissimi, vissero in quegli anni la loro 
          gioventù, ma appartengono all’anomala “generazione 
          del Sessantotto” solo per appartenenza anagrafica e per averne
          respirato il clima.
          
          Non voglio in questa sede nemmeno accennare a un giudizio sulla rilevanza
          di quel periodo e dei movimenti politici e culturali che ne furono
          protagonisti: 
          è certo che l’Italia fosse nel 1968 l’unica democrazia 
          nell’Europa meridionale, è certo che ci sia stato almeno 
          un tentativo serio di colpo di stato della destra autoritaria, è 
          certo che una strategia terroristica a base di attentati dinamitardi 
          (con centinaia di vittime) sia stata ispirata e guidata dai servizi 
          segreti, non solo italiani, con l’aiuto dei neofascisti, è 
          certo che quello sia stato un periodo di emancipazione e conquista di 
          diritti per i lavoratori, le donne, i giovani, i media, è certo 
          che sia stato anche il momento e il terreno di coltivazione del terrorismo 
          brigatista che esplose con la massima violenza a metà degli
          anni settanta.
          
          Certamente “quelli che hanno fatto il Sessantotto” ne portano 
          la responsabilità, in positivo, in negativo, per ciò che 
          hanno realizzato e per ciò che non sono stati capaci di vedere 
          o di fare. Sono comunque una minoranza, per di più segnata da 
          una diaspora che rende quasi impossibile assimilare delle esperienze, 
          creare delle categorie. In ogni caso, un sessantaquattrenne o un cinquantenne 
          di oggi (o chiunque sia nato tra il 1945 e il 1958) non è necessariamente 
          uno “che ha fatto il Sessantotto”. Anzi, statisticamente 
          è molto più facile che sia uno di quella maggioranza che 
          proprio non vi ha preso parte, che in quegli anni ha pensato alla carriera, 
          si è divertito nel simpatico clima di promiscuità, ha 
          cantato indifferentemente canzoni di Battisti o di Guccini, al massimo 
          una o due volte (per moda) ha gridato uno di quegli “slogan orribili” 
          di memoria morettiana (da Caro diario). 
          
          Negli ultimi tempi, forse anche per la nausea di dodici mesi di celebrazioni
          del quarantennale, capita spesso di sentire manifestazioni di fastidio
          o di critica severa verso la fantomatica “generazione del Sessantotto”. 
          C’è chi l’accusa di aver preso il potere e di averlo 
          usato male, c’è chi le rimprovera di non averlo preso, 
          c’è chi vede sessantottini “traditori” dappertutto 
          nelle stanze dei bottoni, c’è chi li compatisce come sconfitti.
          Ma quali sessantottini, di grazia? A quali dei numerosissimi percorsi
          individuali (politici, culturali, personali) ci si riferisce?
          
È curioso, ma questi discorsi generazionali – con toni 
          moralistici – non sono mai stati fatti per le generazioni che 
          fornirono le avanguardie e la base di massa del fascismo. E durante 
          il Sessantotto gli antifascisti storici e i partigiani erano amati e 
          rispettati, nonostante facessero anche loro parte (come sparuta minoranza) 
          delle stesse generazioni che avevano applaudito il Duce, avevano donato 
          l’oro alla Patria, erano corse ad arruolarsi per la conquista 
          dell’Impero o per “spezzare le reni alla Grecia”.
          
          I propri anni si portano con dignità, o con indegnità, 
          a dipendere da quello che si è realizzato. Questo vale per tutti: 
          sessantottini, settantasettini, quarantenni, trentenni, ventenni. L’importante 
          è fare qualcosa, no?
          
          
          8 dicembre 2008 - Lo 
          straordinario spopola
          
          Pare incredibile, ma dall’ultimo intervento sul mio Diario sono passati 
          solo otto mesi. Sembrano otto anni. Ammetto la delusione e la malavoglia, 
          ma prego i cari lettori di comprendere che avevo davvero da fare. Qualche 
          prova? Da allora, dopo le elezioni, sono usciti due miei libri, ci sono 
          stati tre concerti importanti degli Stormy Six (tanto importanti che 
          potrebbero essere stati gli ultimi), ho vinto uno degli ultimi concorsi 
          universitari prima della “riforma” Gelmini, ho potuto ascoltare dalla 
          viva voce di una funzionaria del rettorato la frase indimenticabile: 
          «Ma lei, invece che andare in pensione, si fa assumere come ricercatore?»
          Dunque, in attesa di diventare rapidissimamente associato, poi ordinario,
          poi preside di facoltà e poi rettore (grazie al rapido svecchiamento 
          dell’università promesso dal governo, e per poter dare una risposta 
          convincente alla funzionaria), ed essendo prevedibile che prossimamente 
          sarò di nuovo molto impegnato, approfitto di una brevissima vacanza
          per sottoporvi una riflessione.
          
          Lo “straordinario” spopola. Da almeno un decennio è uno degli inquinanti 
          linguistici peggiori. Quando lavoravo a Radio Tre non potevo scambiare 
          due parole con un intervistato che già incappavo nell’odioso aggettivo. 
          E dire che allora li avvisavo, e premettevo nella corrispondenza un 
          elenco di sinonimi e di perifrasi. Poi mi è toccato subirlo da ascoltatore 
          e da lettore. “Straordinario” è entrato nella lingua di legno degli 
          intellettuali (soprattutto “di sinistra”, con molte virgolette), come 
          surrogato di qualsiasi anche modestissimo tentativo di argomentare un 
          giudizio. Il grande regista, l’esimio direttore, l’austero filosofo, 
          l’acuminato critico, il pragmatico architetto (spero che si capisca 
          che la precedenza all’aggettivo cerca di mimare la retorica socio-culturale 
          corrente), dicono che il tale spettacolo, il tale melodramma, il tale 
          saggio, la tale performance, il tale progetto è “straordinario”. Basta, 
          non c’è bisogno di altro. Se lo dicono loro... “Il tempo è tiranno”, 
          si sa. E anche lo spazio concesso sulle pagine dei giornali. Quindi, 
          perché dilungarsi in spiegazioni: è “straordinario”, no?
          
          Arriva sempre un momento in cui le parole, dal lessico dei VIP della
          cultura, approdano alla pubblicità. È successo anche a “straordinario”. 
          Forse non proprio ora, ci può essere stata qualche avvisaglia precedente. 
          Ma quando un aggettivo entra con un ruolo da protagonista in uno spot 
          della Barilla, è fatta. L’ansia per lo “straordinario” diventa di massa. 
          Come al solito, l’adozione della lingua dei VIP (di “certi” VIP) è anche
          uno strumento per connotare le caratteristiche upmarket del
          prodotto. Quando “straordinario” apparirà in uno spot della Lidl il 
          processo sarà davvero compiuto. Ma la barillazione di “straordinario” 
          ci insegna comunque qualcosa.
          
          Primo: è il segno che il tagliar corto con un giudizio apodittico, dopo 
          esser stato a lungo un giochetto dei potenti, penetra in tutti gli strati 
          della società. “Assolutamente”. “Straordinario”. “Senza se e senza ma”. 
          Anzi: “Assolutamente straordinario, senza se e senza ma”. L’esasperazione 
          dello scontro e della certezza della propria visione. L’inutilità del 
          ragionamento, la pretesa di “aver ragione”. Un modo di alzare la voce 
          senza nemmeno sforzare la laringe. L’anticamera di ogni guerra civile
          (ah, ne sono assolutamente convinto!).
          
          Secondo (però...): perché proprio “straordinario”? Perché questo bisogno 
          di meraviglia, di eccezionalità? Forse per restituire valore a un mondo 
          arido? Perché si è incapaci di vera meraviglia, di restare incantati 
          sempre e da ogni cosa (dalla natura, dalle altre persone, dalle creazioni 
          scientifiche e artistiche - tutte - dell’umanità), e ci si rifugia nella 
          “straordinarietà” di qualche “evento”? Chi non si piega alla retorica 
          dello “straordinario” si inchina a quella della fede. C’è bisogno di 
          un dio, dell’aldilà, di ciò che comunque non appartiene alla nostra 
          vita e possiamo sperare solo di contemplare. A chi serve, se nessuno 
          riesce a riconoscersi nell’ordinario? A chi serve, se l’ordinarietà 
          della nostra vita (della maggior parte della nostra vita) è svuotata 
          di valore, e le cose “straordinarie” sono fuori dalla nostra 
          portata? Ma perché, allora, non cercare valore – e meraviglia 
          – nell’ordinario?
          
          (Ah be’, se riesco a diventare ordinario ve lo racconto!).
          
          
          6 ottobre 2007 - La linea del partito 
          e quella dell'intellettuale
          
          A chi può interessare di sapere se voterò o non voterò 
          alle primarie del Partito Democratico? Forse nemmeno a quelli che continuano 
          a spedirmi gentilmente inviti a farlo, per questo o per quel candidato 
          (sono stato fra quelli che hanno votato nelle altre primarie: il mio 
          indirizzo è noto, anche se pare che non dovrebbe essere usato).
          
          Non voterò. Questo non è un invito ad altri a seguire 
          il mio esempio, ma qualcuno che non vota ci deve pur essere, anche tra 
          quelli che parteciparono alle primarie del 2005. I conti sono presto 
          fatti: allora fummo più di 4 milioni, ora si farà festa 
          se i votanti saranno più di un milione. Io sarò uno di 
          quei più di tre milioni che mancheranno all’appello.
          
          Non faccio politica attivamente. Credo di fare politica con ogni mia
          azione, con ogni cosa che scrivo, con i miei comportamenti pubblici
          e privati. Ma non faccio politica militante. Ho tentato di fare politica
          militante anche relativamente di recente, ma sono stato – per 
          così dire – respinto. Per fare uno dei vari esempi possibili, 
          quando, insieme a un collega che è uno dei maggiori esperti di 
          sistemi informatici del nostro paese, sono andato a una delle riunioni 
          di fondazione del PdCI (autunno del 1998), sono fuggito dopo un’ora 
          e mezza di relazioni in stile anni ’60 sullo stato delle contraddizioni 
          nel pianeta, che finivano inevitabilmente in mugugni su «quei 
          delinquenti di Rifondazione». Ho partecipato all’assemblea 
          di fondazione dell’Unione (a Roma, febbraio 2004), sprofondando 
          in una noia televisiva mortale, dalla quale emergeva l’unico intervento 
          da statista: ahimé, quello di Giuliano Amato. Di quei giorni 
          ricordo molto di più un’altra cosa: l’annuncio alla 
          televisione spagnola – colto al volo facendo zapping in albergo 
          – di un José Luis Zapatero candidato allora dato largamente 
          per perdente, che in caso di vittoria socialista le truppe spagnole 
          sarebbero state ritirate dall’Iraq.
          
          Non faccio politica in o con un partito (non avrei nessuna obiezione
          di principio a farlo), ma la subisco. Più o meno esattamente 
          cinque anni fa la mia collaborazione (di alcuni anni) con Radio Tre, 
          fino ad allora pienamente soddisfacente, si è interrotta perché 
          le mie critiche all’uso della musica registrata con l’introduzione 
          delle playlist non sono piaciute al nuovo direttore, installato dal 
          governo di centro-destra. L’ex-nuovo direttore, ora, è 
          direttore di tutta RadioRai. Né cinque anni fa, né dopo 
          la vittoria elettorale dell’Ulivo, i politici del centro-sinistra 
          si sono interessati della radio: figurarsi del mio caso personale. Quando 
          si parla dei licenziamenti e delle esclusioni operate in Rai durante 
          il governo di centro-destra, se va bene, si ricordano «Biagi, 
          Santoro, Luttazzi, la Guzzanti e decine di altri collaboratori». 
          Avete mai sentito un solo nome, di quelle «decine di altri collaboratori?» 
          Avete mai sentito che qualcuno abbia ripreso a collaborare con la Rai?
          
          Dall’inizio di questo decennio (chiamarlo secolo o addirittura 
          millennio mi sembra ridicolo: chiamiamolo uno dei decenni di merda più 
          recenti) ho lavorato, sempre più intensamente, nell’università. 
          Da allora i modestissimi compensi per questo lavoro sono soggetti, ogni 
          anno, a una tassazione crescente (non vorremo che questi lavoratori 
          autonomi la facciano franca con l’Inps, vero?), ed essendo rimasti 
          rigorosamente invariati in cifra lorda sono progressivamente diminuiti 
          al netto delle tasse e dei contributi. Il ministro dell’Università, 
          l’anno scorso, ha dichiarato che se nella finanziaria di quest’anno 
          non ci fossero state risorse sufficienti si sarebbe dimesso. Ci saranno? 
          Chi lavora nell’università le vedrà, o finiranno 
          in una partita di giro? E se non ci saranno, si dimetterà? Il 
          fatto che l’onorevole Mussi (persona rispettabile) abbia deciso
          di non entrare nel PD non cambia la mia insoddisfazione: giro comunque
          la domanda al suo vice Nando Dalla Chiesa, caro amico.
          
          Infine, stamattina scopro che la piazza più vicina a casa mia, 
          Piazza Bernini, a Milano, sarà sventrata tra poco per costruire 
          un parcheggio sotterraneo, per un centinaio di posti auto, con rituale 
          eliminazione di una decina di alberi di alto fusto in perfetta salute, 
          sconvolgimento del traffico per almeno due anni (almeno secondo la data 
          dichiarata di termine dei lavori), mentre a poche centinaia di metri 
          è ancora aperta la voragine di via Ampère, dove gli scavi 
          hanno minacciato di far crollare i palazzi adiacenti. Questa politica 
          di speculazione feroce, che non dà nessun beneficio ai cittadini, 
          regalando terreno pubblico a immobiliaristi e costruttori amici degli 
          amici, è stata contrastata a Milano solamente dagli abitanti 
          dei quartieri. Ha suscitato più contraddizioni all’interno 
          della stessa maggioranza di centro-destra che l’opposizione intransigente 
          del centro-sinistra. Quando stamattina ascoltavo la gente del quartiere 
          desolata e arrabbiata, avrei avuto la tentazione di dire: «Avete 
          votato la Moratti? Ecco quello che vi meritate.» Ma ho taciuto, 
          perché non ricordo che nessuno degli esponenti del centro-sinistra 
          milanese (ora candidati per le primarie del PD) abbia speso una parola 
          sul modo in cui la speculazione negli ultimi anni ha messo le mani sul 
          sottosuolo della città.
          
          Spero che tutto questo non passi per «antipolitica». O che 
          contribuisca a spiegarla. La mia posizione non è dissimile da 
          quella dell’intellettuale nella barzelletta grafica che un filosofo 
          comunista di Berlino Est mi disegnò su un tovagliolo di carta 
          circa venticinque anni fa, e che con piacere riproduco sul mio sito. 
          Sarò uno di quei tre milioni che non voteranno. Può darsi
          che mi abitui. 
          
          
          
          
            23 gennaio 2007 - Musica 
          d'arte e di consumo
          
          Mi è difficile trattenere delusione e sconforto per l’intervista 
          di Fabio Fazio a Maurizio Pollini, durante la trasmissione “Che 
          tempo che fa” di domenica 21 gennaio.
          
          Molti musicofili (amici e colleghi che ho sentito a voce, altri che
          ho letto su vari blog) hanno criticato Fazio, per quella che è stata ritenuta “ostentata
incompetenza”. Non entro nel merito. Può darsi che Fabio Fazio sia
a disagio col repertorio “colto” (credo sia noto che si è laureato
a Genova nel 1990 con una tesi su Elementi letterari nei testi dei cantautori
italiani), ma a me il suo atteggiamento è parso più che altro
una forzatura del ruolo di “popolarizzatore” che si ritiene spetti
ai conduttori televisivi. Col rischio che – mentre Fazio cercava di spiegare
al “grande pubblico” i concetti espressi da Pollini – il grande
pubblico di Pollini, che si sarà messo all’ascolto della trasmissione,
avrà trovato il livello dell’intervista inadeguato alla propria
competenza, più alta.
Ma quello che mi ha deluso e sconfortato è stato proprio Maurizio Pollini,
persona che ammiro fortissimamente, e che considero (se non altro per certe battaglie
condotte dalla stessa parte, a cominciare da “Musica nel nostro tempo”)
un amico. Non era la prima volta che sentivo parlare Pollini alla televisione,
degli stessi argomenti che ha toccato il 21 gennaio. C’è stato un
programma di RaiSat, intitolato (credo) “Musica della rivoluzione”,
nel quale venne riproposto qualche anno fa il filmato di uno degli storici concerti
dei primi anni settanta: forse al Comunale (oggi Valli) di Reggio Emilia, nel
1973, nel quadro delle manifestazioni di “Musica/Realtà”.
Claudio
Abbado e Maurizio Pollini avevano presentato composizioni di Luigi Nono, e al
termine i tre musicisti avevano sollecitato il dibattito col pubblico. Un giovane
si era alzato, aveva detto di aver apprezzato molto la musica di Nono, ma di
trovarla tutto sommato ostica; credendo di spiegarsi, aveva detto che gli piacevano
molto i King Crimson. Ma né Nono, né Abbado, né Pollini
sapevano chi fossero i King Crimson, e quindi era loro sfuggito il sottinteso
del commento: che la musica di Nono risultava difficile al giovane ascoltatore,
nonostante apprezzasse un rock tra i più radicali dell’epoca (più di
vent’anni dopo, un eminente musicologo mio amico fraterno, ascoltando durante
una mia conferenza un brano dei King Crimson registrato nel 1973 al Concertgebouw,
mi disse: «Però, mica male questo minimalista. Chi è?»).
Quindi, il commento scatenò un fuoco di fila, nel quale Maurizio Pollini
era particolarmente acceso, contro la “musica di consumo”, prendendo
di mira soprattutto gli arrangiamenti mozartiani di Waldo de Los Rios. Che coi
King Crimson c’entravano moltissimo, evidentemente.
Durante l’intervista con Fazio, Pollini ha ripreso quasi con identici accenti
(forse con meno scandalo) la stessa tripartizione statica e contraddittoria dell’universo
musicale: la musica d’arte (ottima), la musica popolare (spesso molto buona,
vedi l’uso che ne hanno fatto Beethoven e Bartók), la musica di
consumo (brutta, onnipresente e inutile, col suo ostinato “bum bum” ritmico),
più il jazz, che in alcuni casi è davvero musica d’arte.
La spiegazione che Pollini (malgrado le frenate di Fazio) ha cercato di dare
della varietà e della sottigliezza ritmica della musica d’arte rispetto
alla musica di consumo, citando il caso del Sacre di Stravinsky, sarebbe
stata molto utile trent’anni prima: forse il giovanotto emiliano avrebbe
potuto spiegare che la ragione per cui lui e moltissimi cultori del progressive
rock frequentavano la musica dei King Crimson era proprio la presenza di metri
addittivi, di armonie politonali, di scale inusitate. Se Fabio Fazio avesse un
minimo di conoscenza della popular music al di fuori della canzone d’autore
italiana, avrebbe potuto citare a Pollini i nomi di Frank Zappa, dei Gentle Giant,
dei Genesis (per non andare verso nomi troppo “difficili”); e che
dire della popular music greca, turca, mediorientale?
L’arte, nel discorso di Pollini, si identifica con la qualità, e
la qualità “fa bene”. Visione politicamente condivisibile.
Ma la qualità è una proprietà esclusiva del repertorio “colto”?
E chi la decide: è un dato universale, stabilito a priori o da una cerchia
di eletti? O è socialmente organizzata? Pollini non si domanda come mai
il jazz è stato a lungo considerato (negli ambienti “colti”)
una musica rozza – tanto che lo stesso Adorno ne scriveva male anche dopo
Monk, Parker, Davis, Coltrane – e solo negli ultimi trent’anni è entrato
nel pantheon della musica d’arte? È forse cambiato il jazz, o è cambiato
il giudizio da parte degli amanti della musica colta?
Contrapporre in modo così rude
la qualità della musica d’arte alla banalità di quella di
consumo, senza minimamente contemplare l’esistenza di popular music diversa
da quella presentata in forma di caricatura, serve a conquistare alla musica
colta nuovi ascoltatori giovani? O non serve piuttosto a creare un piccolo gruppo
di nuovi snob, convinti della qualità della musica d’arte senza
avere strumenti di comprensione diversi da quelli del più ottuso ascoltatore
di “bum bum” ritmici?
Molti anni fa, durante un incontro nel quale
Pollini mi aveva detto: «Tu
          che ti occupi di jazz...», sottintendendo un apprezzamento (mai
          che io mi occupassi di “musica di consumo”!), gli avevo
          promesso che gli avrei fatto avere una cassetta con una selezione di
          brani di popular music che secondo me, a un musicista raffinato come
          lui, avrebbe fatto comprendere all’istante che la questione della
          qualità e
          del valore estetico è più complessa e articolata di quello
          che il dualismo “d’arte”/”di consumo” lascia
          intendere. Una copia di quella piccola antologia, con la scritta “cassetta
          di Maurizio” dev’essere ancora tra le mie cassette. Mi
        sa che mi toccherà rispedirla. 
        
            18 dicembre 2006 - Minimo 
          comune denominatore
          
          L’ultimo in ordine di tempo (per me) è stato Pier Ferdinando 
          Casini, ma quello che ho da dire è rigorosamente bi-partisan
          (aaaaargh!).
          
          Dunque, anche per Pier Ferdinando, come per tutti i politici italiani
          (aspetto smentite), i conflitti fra le coalizioni o all’interno 
          di una coalizione possono essere risolti trovando un “minimo comune 
          denominatore” fra le diverse posizioni. È comprensibile, 
          quindi, che i conflitti non si risolvano e che il clima sia sempre più 
          esacerbato: perché il minimo comune denominatore non esiste!
          
          Esiste il minimo comune multiplo (mcm) che, dati due interi a 
          e b, è il più piccolo intero positivo che è 
          multiplo sia di a che di b. Esiste anche il massimo
          comun divisore (MCD) di due interi, che non siano entrambi uguali a
          zero: è il numero naturale più grande per il quale possono
          entrambi essere divisi.
          
          Ma il minimo comune denominatore proprio non c’è. Sì, 
          è vero: quando si sommano due frazioni il denominatore comune 
          si calcola facendo il minimo comune multiplo dei denominatori delle 
          frazioni da sommare: ma una volta ottenuto quel denominatore, non è 
          minimo rispetto agli altri denominatori. Ad esempio (traggo l’esempio 
          da Wikipedia), la somma di 2/21 più 1/6 è 11/42, e chiunque 
          vede che 42, per quanto sia il minimo comune multiplo tra 21 e 6, non 
          è “minimo” né “comune” rispetto 
          ai “denominatori” 21 e 6.
          
          Il fatto che i politici (tutti, salvo smentita) siano ignoranti di
          aritmetica non mi colpisce. Quello che mi preoccupa è che, come indica la 
          scelta di una metafora così balorda (cfr. G. Lakoff, M. Johnson, Metaphors We Live By, The University Of Chicago Press, 1980), 
          siano ignoranti anche di politica.
          
          
          1 novembre 2006 - Quanto 
          vale la musica in Italia? 
          
          Una ricerca realizzata dal Centro ASK dell’Università Bocconi 
          ormai ogni anno permette di accedere a un resoconto dettagliato dell’economia 
          della musica in Italia. Una “stima del valore del sistema musica 
          in Italia” offriva per il 2004 – l’ultima ricerca 
          fu presentata a dicembre del 2005 – un totale di oltre due miliardi 
          di euro: per la precisione, 2284,2 milioni di euro (la tabella ASK riporta 
          “migliaia di euro”, ma si tratta di una svista).
          
È una cifra notevole, e sembrerebbe confermare l’obiettivo 
          originario della ricerca promossa dal CORAM (un coordinamento di operatori 
          del settore) nel 2001, sempre con il contributo scientifico della Bocconi, 
          e della quale le ricerche successive hanno conservato l’impostazione 
          e le fonti. Il comparto musicale – si sottintendeva allora e si 
          continua a sottintendere – costituisce una componente non trascurabile 
          dell’economia del Paese, e quindi se lo Stato non prende i provvedimenti 
          che gli operatori del settore sollecitano, non solo danneggia la vita 
          culturale della nazione, ma anche colpisce un ramo potenzialmente prospero 
          dell’industria, penalizzando investimenti, contribuendo alla perdita 
          di posti di lavoro, e così via. Un modo del tutto legittimo, 
          a prima vista astuto, di catturare l’attenzione dei politici, 
          in gran parte poco sensibili alle esigenze della cultura e della musica 
          in particolare. All’epoca della presentazione della prima ricerca 
          veniva dato molto risalto ai risultati di uno studio condotto negli 
          USA, dal quale risultava che gli studenti che suonavano uno strumento 
          avessero voti migliori in matematica e nelle materie scientifiche. L’idea 
          che la musica e la cultura non abbiano un valore in sé, ma che 
          servano ad altro (dallo studio della matematica al turismo) e solo in 
          questa dimensione subordinata possano essere prese in considerazione 
          e valorizzate, da allora ha fatto una certa presa sui politici italiani, 
          come si può facilmente ricavare dalla lettura del programma elettorale 
          dell’Unione.
          
          Ma, tornando ai risultati della ricerca, viene da chiedersi se davvero
          il valore del sistema musica in Italia sia ragguardevole, e giustifichi
          da solo l’eventuale attenzione della politica. Come ho già 
          fatto l’anno scorso per i miei studenti, ho confrontato i dati 
          della Bocconi con i risultati dei principali gruppi industriali italiani 
          nello stesso anno. A questo riguardo, la mia fonte per il 2004 è 
          costituita da uno studio R&S Mediobanca, pubblicato la scorsa estate
          su la Repubblica.
          
          L’industria musicale nel suo complesso, comprendendo la discografia, 
          lo spettacolo dal vivo e le sale da ballo, l’editoria musicale, 
          l’industria degli strumenti musicali, le scuole di musica, genera 
          un volume di affari che è inferiore a quello di singoli gruppi 
          industriali collocati intorno al ventesimo posto della graduatoria nazionale: 
          i 2284,2 milioni di euro del sistema musica si confrontano con i 3255 
          di Luxottica, i 3100 di Indesit, i 2772 di Buzzi Unicem, così 
          come nel 2001 il valore di tutto il comparto musicale superava di poco 
          il fatturato della Barilla (da sola), ed era il doppio di quello di 
          Armani. Chi fosse interessato ai dati completi (e alle ricerche CORAM 
          e ASK) li può scaricare dal mio sito, alla pagina http://www.francofabbri.net/pagine/Uni_Download.htm
          (sotto il titolo Materiali per gli studenti).
          
          Vorrei fare qui solo due brevi considerazioni.
          
          1) Le ricerche come quelle del Gruppo ASK sono utilissime, vanno incoraggiate,
          si deve fare sì che i loro risultati siano conosciuti ampiamente, 
          vanno estese e perfezionate, ma non ci si deve illudere che compensino 
          la disattenzione dei governi verso le ragioni della musica. Le ricerche 
          fotografano l’intero comparto musicale come una singola azienda 
          in grave crisi (l’Alitalia, per dimensioni, si offre facilmente 
          al confronto), e la mia opinione è che il rapporto fra valore 
          economico del comparto e considerazione del valore culturale della musica 
          vada precisamente ribaltato: non è il valore economico che può 
          far comprendere l’importanza della musica nella vita nazionale, 
          ma è la marginalizzazione, l’umiliazione del valore culturale 
          della musica nel nostro Paese a fare sì che l’industria 
          musicale sia così poco significativa economicamente.
          
          2) Nelle ricerche della Bocconi non è mai apparso un dato sulle 
          apparecchiature di riproduzione del suono (in quella del 2005 il dato 
          è indicato come “non disponibile”). Ci sono buone 
          ragioni metodologiche perché questo non sia avvenuto: non è 
          sempre facile ascrivere tutte queste apparecchiature a un impiego musicale 
          in senso stretto, e i dati sono certamente eterogenei e di difficile 
          raccolta. Certamente i lettori di cd e di mp3, gli impianti hi-fi, gli 
          impianti per le discoteche dovrebbero rientrare, mentre è più 
          difficile valutare il peso da dare alle radio, alle autoradio, agli 
          home-theater, e (perché no?) ai televisori e ai pc. Anche solo 
          limitandosi agli iPod, a cd e masterizzatori e agli hi-fi “classici” 
          si tratterebbe di cifre considerevoli, che aumenterebbero non di poco 
          il valore del comparto musicale. Ma a me pare che la mancata inclusione 
          di quei dati rifletta un carattere difensivo dell’industria musicale 
          che è a sua volta sintomo (e causa) della sua crisi. Non credo 
          che ci sarebbe da scandalizzarsi se qualcuno sostenesse che la radio 
          non potrebbe esistere senza i prodotti dell’industria musicale; 
          in misura minore lo si potrebbe dire della televisione; quanto il mercato 
          dei pc e di Internet oggi sia guidato dalle attività musicali 
          (scaricare files, masterizzare, ecc.) ce lo dicono le stesse pubblicità 
          delle maggiori aziende del settore. La musica muove interessi colossali, 
          ma l’industria musicale contempla il proprio ombelico, e lo trova 
          piccolo, sì, ma bello.
          Il mio corso di Economia dei beni musicali (corso di laurea in Scienze
          e Tecnologie della Comunicazione Musicale) inizia l’8 novembre
          2006 alle 15:30 (Via Comelico 39/41, Milano, Aula Alfa).
          
          
          18 luglio 2006 - Saluti 
          
          Al termine dello sciopero dei taxi, con giornalisti picchiati e passanti
          insultati, dopo il blocco ferroviario da parte dei tifosi di una squadra
          retrocessa, e precedenti disordini con un fotografo in prognosi riservata
          ecc. ecc., mentre in Libano e Israele ci si bombarda, e dopo che (mirabile
          confluenza del tutto) un gruppo di tifosi della nazionale è passato 
          canticchiando minacciosamente il pò pò pò davanti a un ristorante libanese 
          dove cenavo, parto. Come forse dimostra la foto qui sotto, scattata 
          all'Avana qualche settimana fa, è meglio essere in piccola ma buona
          compagnia. Un abbraccio a tutti.
          
           
 
          
          
          27 marzo 2006 - La dichiarazione IVA di Prodi 
          
          
          Riporto un breve stralcio della notizia che l’edizione on-line 
          di Repubblica dedicava il 26 marzo sera all’intervento di Romano 
          Prodi alla manifestazione “L’Unione fa la Musica”.
          
          Prodi ha individuato anche alcuni punti che questa legge dovrebbe 
            toccare, e ha anche sottolineato che occorre che vi sia un coordinamento 
            tra i ministeri competenti: “Per quanto riguarda l'Iva – 
          ha detto Prodi – penso a una diminuzione dal 20 al 15 cento ma, 
            non illudiamoci che questo cambia il mercato. Ridurre l'Iva è 
          un atto, certo, di giustizia”.
          
          Ho l’impressione che il cronista non abbia capito bene (non solo 
          la consecutio e la punteggiatura): del resto l’articolo pubblicato 
          sull’edizione cartacea del quotidiano, il 27 marzo, non porta 
          tracce della presunta dichiarazione di Prodi sull’IVA.
          L’argomento, ovviamente, è l’IVA sui prodotti fonografici, 
          che è attualmente del 20%. Spiego qui di seguito perché 
          – secondo me – è impossibile che Romano Prodi abbia
          veramente detto quello che la notizia gli attribuiva.
          
          Nei paesi dell’Unione Europea esiste un’aliquota IVA ordinaria,
          che i paesi sono liberi di variare entro un minimo e un massimo.
          Per esempio (la lista completa si trova qui: http://www.e-services.agenziaentrate.it/aliquote_iva/aliquote_iva-01.htm),
          l’aliquota ordinaria a Cipro è del 15% (valore minimo), 
          in Gran Bretagna è del 17,5%, in Svezia del 25% (valore massimo). 
          In Italia è del 20%.
          
          Esistono poi aliquote ridotte (al massimo due), che le singole legislazioni
          nazionali applicano a prodotti e servizi particolari. Per esempio,
          la Danimarca non ha aliquote ridotte, la Gran Bretagna ne ha una (il
          5%), l’Italia ne ha due (quella ridotta del 10% e quella superridotta 
          del 4%). Le direttive comunitarie stabiliscono rigorosamente l’applicabilità 
          delle aliquote ridotte a questo o a quel bene o servizio (l’elenco 
          si trova nell’allegato H della Sesta Direttiva del Consiglio del 
          17 maggio 1977, successivamente modificata, che si può vedere
          qui: http://europa.eu.int/eur-lex/it/consleg/pdf/1977/it_1977L0388_do_001.pdf).
          La ragione è semplice: il trasferimento di una certa categoria 
          di beni a una aliquota ridotta non deve rientrare nell’autonomia
          decisionale dei singoli stati, dato che provvedimenti unilaterali sarebbero
          turbativi della concorrenza.
          
          Questo è il quadro normativo che ha finora impedito la riduzione 
          dell’IVA sui fonogrammi. I fonogrammi non sono compresi nella 
          lista dei beni ammessi alle aliquote ridotte; le uniche possibilità 
          per ridurre l’IVA “sui dischi” sono le seguenti: 1) 
          ridurre l’aliquota ordinaria, cioè su tutti i beni e servizi;
          2) rinegoziare la direttiva europea sulle aliquote ridotte.
          
          La prima ipotesi è inapplicabile, per gli effetti devastanti 
          che avrebbe sul gettito, e in ogni caso non avrebbe il carattere selettivo, 
          rivolto ad aiutare l’industria discografica in crisi, che viene 
          invocato dagli operatori del settore. La seconda ipotesi trova un’opposizione 
          determinatissima da parte di alcuni stati membri, in particolare la 
          Gran Bretagna: quindi, occorrerebbe un’azione concertata di molti 
          paesi dell’Unione, col rischio comunque di trovarsi di fronte 
          a un veto (le modifiche all’elenco dell’allegato H devono 
          essere approvate all’unanimità).
          
          Se ne era accorta a suo tempo la titolare del ministero della cultura
          del governo Zapatero appena insediato, che aveva prima annunciato in
          pompa magna la riduzione dell’IVA sui dischi in Spagna, per fare
          una precipitosa marcia indietro (del tutto ignorata dai media) pochi
          giorni dopo.
          
          Quindi, ridurre l’IVA sui fonogrammi dal 20% al 15% sarà 
          senz’altro un atto di giustizia, ma è quasi impossibile 
          da realizzare: Prodi, con la sua esperienza europea, non può 
          non saperlo.
          
          
          13 marzo 2006 - Se ne vado 
          
          
«Che lei si alzi e se ne vada è una cosa che lei non può 
          dire», ha detto Lucia Annunziata all’inizio del battibecco 
          finale con Silvio Berlusconi, nella ben nota intervista del 12 marzo. 
          E cosa ha risposto il Presidente del Consiglio? «Allora, mi alzo
          e se ne vado.» Un piccolo lapsus. Può essere
          interpretato in due modi:
          
          1. Berlusconi ha una scarsa padronanza della lingua italiana;
          2. quando è alterato, Berlusconi dice quello che pensa veramente: 
          e cioè che lui si alza, ma in realtà è Lucia Annunziata
          che se ne va.
          
          Teniamone conto, perché anche quando gli elettori gli avranno 
          detto che se ne deve andare, farà di tutto perché siano 
          loro ad andarsene. Non è un errore, e non è uno scherzo.
        
          
          2 novembre 2005 - Rock e lento 
          
          
          Chissà se avevamo davvero bisogno del giochino “rock/lento”. Nuovo, 
            comunque, non è: si rigenera a qualche anno di distanza dall’edizione 
            precedente, cambiando titolo per le due categorie. Negli anni d’oro 
            del rock si chiamava “in/out”. Però Adriano Celentano e i suoi autori 
            potevano trovare un nome diverso per la categoria “out”: “lento” funziona 
            malissimo. Prima di tutto, per ragioni logiche: Celentano, o chi per 
            lui, contrappone due categorie, una delle quali però implica l’altra. 
            Mi spiego. Fin dall’epoca del rock ‘n’ roll originale, quello al quale 
            Celentano si è sempre ispirato, il genere era definito dalla compresenza 
            nel repertorio di brani veloci, agitati (Blue Suede Shoes, 
          All Shook Up) e di brani lenti (Love Me Tender, Crying 
              In The Chapel). Il personaggio di Elvis Presley, e con lui il rock 
          ‘n’ roll “classico”, sostanzialmente si regge grazie all’identificazione 
            fra la sovreccitazione del bulletto di provincia con la tenerezza romantica 
            del bravo studente, e sulla difficoltà di decidere quale dei due sia 
            più pericoloso. Dunque, fin dagli anni cinquanta “rock” e “lento” non 
            sono contrapposti, ma due anime (Jekyll e Hyde?) della stessa musica. 
            Quando poi, nella seconda metà degli anni sessanta, la musica diretta 
            al consumo simultaneo di un largo pubblico giovanile di massa (la definizione 
          è di Simon Frith) comincia a chiamarsi “rock” e basta, la “slow rock 
            ballad”, cioè il “lento” del “rock”, diventa una componente ancora più 
          significativa del genere. È mai possibile immaginarsi il rock senza 
          Yesterday, Lady Jane, Michelle, Since 
              I’ve Been Loving You, Wish You Were Here? Quindi il rock 
          è anche lento. Se posso aggiungere una considerazione personale, il 
            fatto che Celentano, per accontentare la parrocchietta, abbia qualificato 
            Zapatero come “lento” mi è parso squallido, ai confini del miserabile. 
            Ma se Zapatero è “lento” come It’s All Over Now, Baby Blue, 
            come For No One, come God Only Knows, come A Salty 
              Dog, come Bridge Over Troubled Water, come Imagine, 
            come Purple Rain, e Celentano è “rock” come Prisencolinensinainciusol 
          e come Tre passi avanti, non ho dubbi su chi e che cosa scegliere.
          
          
          1 luglio 2005 - Dove sono i nostri Billy Bragg?
          
          Ho un’opinione (modesta e poco originale, lo so): che la fame 
            dell’Africa sia il risultato di secoli di rapina delle risorse 
            naturali e umane di quel continente da parte della “civiltà 
          occidentale”. Capisco che risvegliare centinaia di milioni di 
            coscienze addormentate, anche solo sulle conseguenze tragiche di quella 
            rapina, possa essere utile. Ma se non si fa niente per accennare (almeno!) 
            alla causa principale della rovina dell’Africa, si rischia di 
            ingigantire quel circolo vizioso di aiuti, corruzione, debiti che alimenta 
            i conti in banca di qualche dittatore e il giro di affari delle imprese 
            occidentali coinvolte nelle opere finanziate dagli aiuti.
          
          Non discuto la buona fede di Bob Geldof, né di alcuno dei musicisti 
            coinvolti nel Live Eight. Ma mi fa specie la presenza del tutto minoritaria 
          – soprattutto nel programma di Roma – di cantanti e gruppi 
            che abbiano fatto della lotta contro quella rapina una ragione profonda 
            della loro attività artistica. Non importano le etichette politiche; 
            chiamiamola lotta antimperialista, anticapitalista, chiamiamola pure 
            indipendenza artistica, dignità personale: credo che chiunque 
            legga queste righe abbia idea del profilo dei musicisti che potrebbero 
            salire sul palco del Circo Massimo dando il senso di una radicata e 
            radicale solidarietà con la tragedia africana e con tutti gli 
            oppressi del mondo, e di quelli che invece sarebbero comunque bene accolti 
            per una testimonianza, ma la cui traiettoria artistica e professionale 
            si è sempre mossa lontanissimo da quella solidarietà. 
            Ora, è evidente che questi ultimi siano in larghissima maggioranza.
          
          Intendiamoci bene, non invoco una selezione di “duri e puri”. 
            Ma, vivaiddio, questa è una manifestazione politica, secondo 
            le chiarissime indicazioni dei promotori. E allora assume un segno politico 
            illuminante (e poco gradevole) non la presenza di Biagio Antonacci, 
            Laura Pausini, Cesare Cremonini e di tutte le altre benemerite star 
            del pop che hanno voluto partecipare, ma l’assenza (che non si 
            può non pensare sia deliberata, programmata) di tanti altri nomi 
            che certamente rappresentano meglio presso i giovani italiani le istanze 
            di lotta contro lo sfruttamento e la povertà. L’elenco 
            sarebbe lunghissimo, ma basterebbe voler dare un’occhiata alla 
            programmazione dei centri sociali, delle feste politiche, e perfino 
            alle classifiche di vendita dei dischi per rendersene conto. C’è 
          una lunga storia, che va dai Cantacronache alle posse, che è 
          stata messa alla porta. Come al solito, bisogna dire.
          
          Insomma, a Edinburgo ci sarà Billy Bragg. Dove sono i nostri 
            Billy Bragg, il 2 luglio? Forse la direzione artistica del concerto 
            romano (toh! Un discografico!) ha valutato che ci avrebbero fatto fare 
            brutta figura? 
            
          
          26 maggio 2005
          
          You’ll Never Walk Alone è stata scritta da Richard 
          Rodgers (musica) e Oscar Hammerstein II (parole), per il musical Carousel, 
          che debuttò a Broadway il 19 aprile 1945. Il clima della Seconda 
          Guerra Mondiale, che stava per finire, non è certamente estraneo 
          al carattere sia della melodia che del testo. La canzone ha avuto molti 
          interpreti, tra i quali Judy Garland, Frank Sinatra, Perry Como, Conway 
          Twitty, Nina Simone.
          
          Nell’ottobre del 1963 uscì una versione su 45 giri di Gerry 
          and The Pacemakers, un gruppo di Liverpool che dal giugno del 1962 aveva 
          firmato un contratto con Brian Epstein e incideva per la Columbia sotto 
          la direzione artistica di George Martin. Il singolo salì al secondo 
          posto delle classifiche inglesi nella settimana del 26 ottobre, dopo 
          Do You Love Me? di Brian Poole and The Tremeloes e davanti 
          a She Loves You dei Beatles, e fu al primo posto per tutto 
          novembre, prima di cedere proprio ai Beatles.
          
          Oltre che dai tifosi del Liverpool, che l’hanno adottata come 
          inno ufficiale, la canzone è stata a lungo cantata durante le 
          marce per la pace negli anni sessanta.
          
          Il testo dice così: «Quando cammini in una tempesta / tieni 
          alta la testa / e non aver paura dell’oscurità. / Alla 
          fine della tempesta / c’è un cielo dorato / e il canto 
          dolce e argentino dell’allodola. / Continua a camminare nel vento 
          / continua a camminare nella pioggia / nonostante i tuoi sogni siano 
          scossi e agitati… / Cammina, cammina, con la speranza nel cuore 
          / e non camminerai mai da solo / non camminerai mai da solo.» 
          Ferale per il Presidente del Consiglio, l’ascolto della canzone 
          potrebbe essere suggerito (e magari imposto) ai politici dell’opposizione, 
          sostituendo il futuro degli ultimi due versi con un imperativo.
          
          
          25 maggio 2005
          
          A un mese di distanza, riparo a una mancanza di informazione. Durante 
          lo spettacolo di Appunti partigiani del 25 aprile scorso gli 
          Stormy Six hanno eseguito per la prima volta una nuova orchestrazione 
          di Stalingrado e La fabbrica. Al gruppo (erano presenti 
          Carlo de Martini, Tommaso Leddi, Umberto Fiori, Franco Fabbri, Pino 
          Martini) si sono aggiunti gli archi di una formazione proveniente da 
          varie orchestre, compresa quella del Teatro alla Scala: Daniele Parziani 
          e Alessandro Vavassori (violini), Francesco Lattuada e Danilo Rossi 
          (viole), Luca Franzetti e Mario Brunello (violoncelli), Omar Lonati 
          (contrabbasso). L’orchestrazione era a cura di Tommaso Leddi e 
          Carlo De Martini.
          
          A giudicare dalle reazioni del numerosissimo pubblico presente e dai 
          messaggi che sono arrivati nei giorni successivi, è stata una 
          bella cosa. Naturalmente nessun giornale ne ha dato notizia, ma questo 
          è del tutto normale. Purtroppo senza gli archi aggiunti, le due 
          pericolossime canzoni (da evitare accuratamente in festival, spettacoli 
          e dischi “di sinistra”, come il Primo Maggio, il Mantova 
          Musica Festival, le antologie discografiche dedicate alla Resistenza) 
          saranno eseguite nuovamente nella serata inaugurale del Mittelfest, 
          a Cividale del Friuli, il 16 luglio 2005. È un luogo periferico, 
          i moderati possono stare tranquilli.
          
          
          18 maggio 2005
          
          Due piccole osservazioni sulla laurea in Scienze della Comunicazione 
          conferita a Vasco Rossi:
          
          1) Chissà se i colleghi giornalisti impareranno mai che la laurea 
          ad honorem la si dà ai morti (quella che si dà ai vivi 
          si chiama laurea honoris causa). Pare che la toga indossata da Vasco 
          Rossi allo Iulm costasse 700 euro. Si spera che fosse abbastanza ampia 
          per permettergli di fare discretamente i debiti scongiuri.
          
          2) Vasco Rossi è un bravo autore di canzoni, un ottimo cantante 
          rock, un grande comunicatore, non si discute. Ed è anche una 
          persona cordiale e rispettabilissima. Non c’è nulla di 
          male se lo Iulm (oltre che farsi un po’ di pubblicità) 
          ha ritenuto di premiarlo. Però, non molto tempo fa, alla stessa 
          università è stato proposto di ospitare la conferenza 
          internazionale della più grande associazione di studi sulla popular 
          music, dove sarebbero intervenuti più di trecento studiosi di 
          oltre trenta paesi, a portare i risultati delle loro ricerche, coltivate 
          nelle numerosissime università di tutto il mondo (Italia compresa) 
          dove si studia seriamente la popular music. I responsabili dello Iulm 
          hanno detto che non erano interessati. La conferenza si farà 
          lo stesso, alla Sapienza di Roma, dal 25 al 30 luglio 2005. I colleghi 
          giornalisti e capiservizio che hanno dedicato alla laurea di Vasco Rossi 
          colonne e colonne, sono gentilmente invitati ad assistere. Come uno 
          degli organizzatori mi aspetto – prima o poi – una laurea 
          honoris causa (ma anche ad honorem andrebbe bene lo stesso).
          
          
          9 maggio 2005
          
          Quando canto “… gli alpini che muoiono, traditi lungo il 
          Don”, in una canzone che ho scritto qualche anno fa (giù 
          la maschera: nel 1973), ho in mente alcune cose precise. Il fratello 
          di mio padre, mio zio, il tenente Guido Fabbri, è morto in Russia. 
          Era nella divisione Julia, battaglione Cervino. A quanto pare fu visto 
          l’ultima volta avanzare a mani nude contro un carro armato sovietico. 
          Gli hanno dato la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, 
          che fu appuntata in una cerimonia commovente sul petto del futuro autore 
          de La fabbrica e coautore di Stalingrado. Il mio.
          
          Oggi festeggio (non celebro: festeggio) insieme a voi la vittoria dell’Unione 
          Sovietica e degli altri Alleati contro il nazifascismo, convinto che 
          quella vittoria abbia liberato non solo gli antifascisti, non solo quelli 
          come mio zio che andarono al fronte per senso del dovere e patriottismo, 
          ma anche gli stessi fascisti, molti dei quali – se avessero vinto 
          – se ne sarebbero pentiti amaramente.
          
          Certo, ci sono molte ragioni per cui questa festa non può essere 
          gioiosa come altre: non ultime che il nazismo e il fascismo esistono 
          ancora, che ancora c’è la guerra, e che molti delitti compiuti 
          da fascisti in questi ultimi sessant’anni sono rimasti impuniti. 
          E, naturalmente, che quella vittoria è stata per molti europei 
          l’inizio di un periodo oscuro, come insistono quotidianamente 
          gli opinionisti.
          
          Nonostante il titolo della canzone che ho cantato mille volte – 
          che ripete il nome della città la cui resistenza ha cambiato 
          il corso della guerra, come concordano gli storici di ogni tendenza 
          – non sono né stalinista, né esperto di Stalin. 
          Mi ricordo solo (cosa di cui quegli opinionisti sembrano dimenticarsi) 
          che Stalin morì nel 1953, che i suoi crimini vennero denunciati 
          da Chruscev nel ventesimo congresso del Pcus, nel 1956, e che se la 
          revisione della storia può spingersi a trovare un nesso fra l’affermazione 
          del nazismo e la minaccia del bolscevismo, allora si potrebbe anche 
          pensare che per l’isolamento dell’Urss e per le restrizioni 
          della libertà che colpirono i cittadini di quel paese e dei suoi 
          satelliti, un ruolo, chissà quanto piccolo, devono pur averlo 
          giocato le politiche delle potenze occidentali. Ma temo che ci si perderebbe 
          in una discussione infinita.
          
          Vorrei, invece, festeggiare quella vittoria – se mi è permesso 
          – con lo stesso spirito con cui ancora oggi i francesi (e con 
          loro gli uomini liberi del mondo) festeggiano la Presa della Bastiglia. 
          Nessuno si nasconde che il periodo culminante della Rivoluzione Francese 
          abbia preso il nome di Terrore, che siano state tagliate molte teste 
          di innocenti, che gli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza, 
          siano stati portati in giro per l’Europa dalle armate di un imperatore. 
          Il 14 luglio, ugualmente, si scende per le strade e si balla. Così 
          dovremmo fare il 9 maggio.
          
          Un’ultima annotazione. Qualche anno fa, alla radio, ho sentito 
          gli argomenti di un giovane economista rampante. Diceva che da quando 
          non c’è più l’Unione Sovietica, e dunque la 
          minaccia che forti proteste popolari siano anche solo moralmente appoggiate 
          da una grande potenza mondiale, non aveva più senso che le nazioni 
          capitaliste si sforzassero di mantenere lo stato sociale. In sostanza, 
          quell’economista ci spiegava che se fino a ora avevamo avuto l’assistenza 
          sanitaria, le pensioni, la scuola pubblica, dovevamo ringraziare l’Armata 
          Rossa. Be’, per questo io la ringrazio ancora adesso.
          
          
          3 maggio 2005
          
          Sono passate alcune settimane dalle mie dimissioni dalla direzione artistica 
          del Mantova Musica Festival, e ancora il MMF non le ha annunciate. D’altra 
          parte, nessun altro annuncio è stato fatto, a parte una lettera di invito 
          spedita a organizzatori musicali di tutta Europa (scritta a suo tempo 
          da me, ma inviata sicuramente dopo le mie dimissioni) che riporta ancora 
          il mio nome fra i direttori artistici. Poco male. So che questa trascuratezza 
          non è dovuta a malizia. Però, da qualche parte si deve poter leggere 
          perché mi sono dimesso. Questa è l’occasione.
          
          Dai primi di novembre del 2004 esiste un testo, redatto da me, che indica 
          le linee programmatiche del Mantova Musica Festival 2005. Questo testo, 
          approvato dai promotori del MMF, è stato utilizzato in varie occasioni 
          anche per presentare a enti pubblici, in atti ufficiali, il progetto 
          del Festival, con l’indicazione della mia responsabilità artistica (primus 
          inter pares, insieme a Titti Santini e Vittorio Cosma).
          
          Arrivati a metà aprile 2005, cioè a un mese e mezzo dalla data dell’inizio, 
          ragioni di budget (largamente prevedibili mesi e mesi prima) hanno suggerito 
          tagli al programma, ma con una distribuzione secondo me iniqua, affliggendo 
          in modo particolare gli aspetti innovativi, e con il forte suggerimento 
          di mantenere un occhio particolarmente attento ai nomi di richiamo.
          
          Ho dedicato più di un articolo alla debolezza del concetto di “nome 
          di richiamo” e all’odiosità della distinzione fra “big” ed “esordienti” 
          in un contesto come quello di Mantova, e in presenza di una situazione 
          nella quale il mercato tradizionale è asfittico, mentre decine o centinaia 
          di musicisti e gruppi emarginati dai media riescono tuttavia ad avere 
          un seguito locale molto significativo.
          
          Pensavo che il successo della prima edizione del MMF fosse sufficiente 
          a far capire che le cose stanno cambiando, e velocemente. Invece, quando 
          si è trattato di tagliare qualcosa, gli “eventi” (che drenano la grande 
          maggioranza delle risorse del MMF) sono stati lasciati intatti, mentre 
          si è proposto di ridurre altri spazi, per di più con il famoso “occhio” 
          ai nomi.
          
          Consideravo che il mio mandato nella direzione artistica fosse di:
          
          1. Coordinare le scelte della direzione con quelle della commissione 
          selezionatrice, quindi (semmai) di assicurare un occhio di riguardo 
          proprio ai non-nomi.
          
          2. Contribuire a rinnovare la struttura del Festival, tenendo conto 
          della stagione diversa e della diversa collocazione rispetto alla prima 
          edizione (quindi non “contro Sanremo”).
          
          3. Rimediare all’attenzione scarsa che la prima edizione aveva riservato 
          a istituzioni storiche e recenti dell’opposizione musicale in Italia, 
          dal Nuovo Canzoniere Italiano alle etichette indipendenti più significative 
          (Materiali Sonori e molte altre), ai musicisti organizzati nel Forum 
          Sociale della Musica, alla musica colta: una disattenzione che nel 2004 
          poteva essere attribuita alla fretta, ma che nel 2005 si rivelerebbe 
          un vero e proprio accanimento contro i musicisti d’opposizione, del 
          tutto inspiegabile alla luce delle premesse che hanno portato alla fondazione 
          del MMF.
          
          Non essendo in grado di realizzare nessuno degli aspetti rilevanti del 
          mio mandato, ritrovandomi costantemente in minoranza in una direzione 
          artistica a tre, e per di più nell’indifferenza dei promotori rispetto 
          ai temi per me più importanti, mi sono dimesso. Spero che il 
          MMF abbia comunque successo, e sono sicuro che porterà qualche traccia 
          del mio lavoro. Ma la somiglianza con i documenti con i quali a suo 
          tempo mi sono impegnato sarà troppo vaga e incerta perché abbia un senso 
          che rimanga la mia firma.
          
          Un abbraccio a tutte le persone di valore che stanno ancora lavorando 
          al MMF.