27 ottobre 2014 - Un gettone per l'iPhone

26 ottobre 2014 - Il 41% di Renzi? Un bluff

7 ottobre 2012 - I dirigenti

7 agosto 2012 - Vivere al di sopra dei propri mezzi

18 maggio 2012 - La questione dell'età

11 maggio 2011 - Tagliare le tasse, tagliare la cultura

28 aprile 2011 - Le elezioni per il Comune di Milano

12 giugno 2009 - Perché sono scomparsi i «dischi»

3 gennaio 2009 - Quelli che hanno fatto il Sessantotto

8 dicembre 2008 - Lo straordinario spopola

6 ottobre 2007 - La linea del partito e quella dell'intellettuale

23 gennaio 2007 - Musica d'arte e di consumo

18 dicembre 2006 - Minimo comune denominatore

1 novembre 2006 - Quanto vale la musica in Italia?

18 luglio 2006 - Saluti

27 marzo 2006 - La dichiarazione IVA di Prodi

13 marzo 2006 - Se ne vado

2 novembre 2005 - Rock e lento

1 luglio 2005 - Live Eight: dove sono i nostri Billy Bragg?

26 maggio 2005 - You'll Never Walk Alone

25 maggio 2005 - Stalingrado e La fabbrica con gli archi

18 maggio 2005 - La laurea a Vasco Rossi

9 maggio 2005 - Grazie

3 maggio 2005 - Dimissioni dal Mantova Musica Festival


27 ottobre 2014 - Un gettone per l'iPhone

Poco meno di trent'anni fa, quando il pistola che ora è a Palazzo Chigi probabilmente era ancora nei lupetti (per gli scout era troppo giovane), accompagnai in giro per l'Italia Steve Furber, uno dei tre progettisti dell'ARM (Acorn Risc Machine), il primo chip a tecnologia RISC a basso costo.

http://en.wikipedia.org/wiki/ARM_architecture

Furber teneva conferenze su quella tecnologia, io cercavo di attirare l'attenzione sull'Archimedes, un personal computer RISC (il primo), perché lo si installasse nelle scuole e nelle università.

Quella tecnologia è stata adottata in seguito per la progettazione di chip che a lungo hanno continuato a chiamarsi ARM, utilizzati in svariate applicazioni industriali, fra le quali la telefonia cellulare. Ogni iPhone di questo mondo (come tutti gli smartphone equivalenti) si basa su quella tecnologia.

Il pistola di Palazzo Chigi, che per essere stato una volta a Silicon Valley se la tira da "moderno", dimentica che se le nuove tecnologie oggi sono così sviluppate è perché qualcuno le ha progettate e fatte crescere, trenta e più anni fa. Molti di quelli che ne sono responsabili ora hanno più di sessanta o settant'anni (Steve Jobs ne compirebbe sessanta l'anno prossimo).

Questi sarebbero i "vecchietti" con i quali se la prende Renzi.

"Saria mi el pistola, el pistola te set ti..." (Jannacci, "T'ho compraa i calzett de seda", 1964).

26 ottobre 2014 - Il 41% di Renzi? Un bluff

È dal giorno dopo le le lezioni europee che viviamo sotto la minaccia (che per alcuni può essere anche gradita) di quel 41% che il PD ha ottenuto in quell'occasione, e che Matteo Renzi dà per scontato che otterrebbe anche alle prossime elezioni politiche. Si tratta (vale la pena di puntualizzare) del 40,81% dei voti validi, che sono stati 27.371.747 (a me i conti riportati sul sito del Ministero degli Interni non quadrano perfettamente, ma la differenza è di poche migliaia). Aveva votato il 58,68% degli aventi diritto; a quella quota vanno poi tolte le schede bianche, quelle nulle, quelle contestate o non assegnate. I voti attribuiti al PD sono stati 11.172.861.

Alle ultime elezioni politiche l'affluenza era stata del 75,16%, il 28% in più (si deve calcolare il calo o l'incremento percentuale, non fare la differenza in punti percentuali), con 35.254.807 votanti. Per ottenere una percentuale del 40,81% con un'affluenza uguale a quella delle politiche del 2013, il PD dovrebbe raccogliere poco meno di 14.400.000 voti (giusto il 28% in più rispetto alle europee). Nel 2013 – con quell'affluenza – ne prese 8.644.187, pari al 25.42%: quel famoso 25% che Renzi oggi paventa se il suo partito ritornasse sulla "linea Bersani".

Ora, l'affermazione di Renzi che il PD possa ottenere il 41% alle politiche, "come alle europee", può forse ingannare quella grande massa di italiani che non sanno cos'è una percentuale, come si calcola, e che operazioni si fanno con quei valori. Ma che il PD possa ottenere quattordici milioni e passa di voti in una consultazione politica, con alle spalle tutta la storia delle differenze fra risultati europei e nazionali (ricordate il successo del PCI alle europee, dopo la morte di Berlinguer?), fa davvero riflettere. Se ne prendesse 11 milioni (gli stessi delle europee), che sarebbe comunque una grande crescita rispetto al PD delle politiche 2013, otterrebbe il 31% circa. Su questa cifra sono disposto a scommettere. Quello di Renzi è un bluff. Qualcuno dovrebbe andarlo a vedere.


7 ottobre 2012 - I dirigenti

Ho trovato molto interessanti le dichiarazioni di un consigliere regionale lombardo a proposito dei previsti tagli agli emolumenti della sua categoria. Senza quegli ottomila euro di stipendio (sono in realtà meno di settemila, ahilui, ma poi ha altre entrate), come farà ad arrivare alla fine del mese? Quando è stato eletto, facendo conto su quello stipendio e sul vitalizio al termine del mandato, si è impegnato per un mutuo costoso. Ma poi il vitalizio è stato abolito, e ora... Di fronte all'obiezione che si tratta comunque di compensi più che sostanziosi, il consigliere replica che prima di essere eletto era un dirigente del settore privato: se avesse saputo che da consigliere regionale avrebbe guadagnato di meno non si sarebbe candidato.

Devo dire che non mi stupisce tanto l'idea che il valore di una carica pubblica debba essere misurato soltanto in base ai guadagni che la carica produce (visto il partito dal quale proviene il consigliere in questione). Mi colpisce di più l'appello a quello che sembra essere un sentimento largamente condiviso, non solo "a destra", e cioè che sia giusto che un dirigente privato guadagni molto, e che la qualità dei dirigenti privati sia necessariamente alta. Dal che si deve concludere che se si vuole che le istituzioni pubbliche abbiano dirigenti di qualità, devono essere pagati almeno quanto quelli delle aziende private, che sono di qualità per definizione.

Infatti, si parla della "casta" dei politici, di quella dei magistrati, di quella (capirete...) dei professori, ma mai di quella dei "manager" (così come li si chiama qui da noi). Che un dirigente privato guadagni tanto, tantissimo, è giusto, perché i dirigenti privati sono bravi.

A dire la verità, avendo lavorato per una quindicina di anni nel settore privato, e in un ambito di quelli più competitivi, posso testimoniare che fra i dirigenti delle aziende italiane ci sono anche sonorissime, grandiose teste di cazzo. Ma vi ricordate quando i personal computer della Olivetti facevano concorrenza a quelli della IBM? Che fine gli hanno fatto fare? E lo sappiamo che la tecnologia dei chip che oggi fanno funzionare gli smartphone la sviluppò una piccola società inglese, acquistata dalla Olivetti, e venne poi dismessa (quasi come il sistema common rail per i motori diesel, sviluppato dalla Fiat e ceduto alla Bosch)? Ricordo una riunione nella quale dovevo spiegare i principi dell'architettura client-server allo staff di una grande compagnia telefonica. Il dirigente mi disse: "Parli pure liberamente, qui siamo tutti di estradizione tecnica!" La sua competenza tecnica non era superiore, vi giuro, a quella linguistica.

È un fenomeno globale. Chi ha visto The Inside Job ricorderà le facce da beoti (o da criminali, o entrambi) di alcuni dei dirigenti e consulenti di grandi istituzioni finanziarie statunitensi, responsabili del disastro del 2008. Molti sono ancora al loro posto e guadagnano milioni.

È il risultato ovvio, direi, di trent'anni di lotta di classe dall'alto in basso, fin dai tempi di Reagan, senza apparente resistenza da parte dei partiti (ma anche degli intellettuali) "di sinistra". "Tecnico" è bello (come si vede dal nostro governo attuale) e merita, per difetto (default, se preferite) paghe sempre più alte. La selezione meritocratica la devono passare gli altri, i lavoratori. Chi è "tecnico" ha meritato per sempre, a partire dal giorno in cui è stato assunto come dirigente, spesso per meriti che con la competenza non hanno nulla a che fare.

Ma il falcetto su l'uve iroso scende
come una scure, e par che sangue cóle...
(G. Carducci, Ça ira).

7 agosto 2012 - Vivere al di sopra dei propri mezzi

Non posso resistere a commentare il ritornello che da mesi circola nei discorsi di politici (non solo italiani) e opinionisti, e che mi raggiunge perfino qui, in mezzo all'Egeo: che per tanto tempo "abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi" e ora "ne paghiamo le conseguenze".

Faccio una certa fatica a identificarmi in quella prima persona plurale. Non posso negare che a lungo (e specialmente in certi periodi, e sotto certi governi) lo stato italiano si sia indebitato oltre ogni ragionevolezza, sia indulgendo nelle spese, sia rinunciando a incassare e tollerando un'evasione fiscale enorme. Ho sempre pensato (forse senza grande acutezza scientifica, perdonatemi) che un meccanismo tipico del processo di indebitamento dello stato italiano fosse l'emissione di buoni del tesoro, gran parte dei quali venivano acquistati da "risparmiatori" con il frutto della loro evasione fiscale, creando così un debito dello stato verso coloro nei confronti dei quali avrebbe dovuto essere creditore.

Ma, in ogni caso, io (scusate la personalizzazione) non c'entro. Ho sempre votato contro i governi che hanno promosso quella politica. Ho sempre pagato le tasse, senza che mi restasse un centesimo da investire in borsa o in buoni del tesoro. Da quando lavoro direttamente per lo stato, nell'università, ho percepito compensi e stipendi ridicoli rispetto ai miei colleghi di qualunque altro paese europeo. Non ho beneficiato di sussidi e regalie di alcun tipo, e quando ho avuto bisogno della sanità pubblica credo di aver pagato tutto fino all'ultimo centesimo attraverso le imposte sui miei (modesti) redditi.

Non sono certamente il solo. Anzi. Credo che una larga percentuale dei miei concittadini si possa identificare in questo quadro e in questi comportamenti. Quindi, non "abbiamo" vissuto al di sopra dei "nostri" mezzi. "Hanno" vissuto al di sopra dei "nostri" (ahinoi) mezzi. Chi? Quei farabutti, dei quali si potrebbe ricostruire abbastanza facilmente l'elenco.

E che, in buona parte, e a lungo, hanno sostenuto quella politica di indebitamento anche per restare abbarbicati al potere e per impedire ogni rinnovamento politico-culturale della società italiana, perseguendo sempre e comunque gli obiettivi del neoliberismo più aggressivo.

Quindi, diteglielo (diciamoglielo), ai banchieri tedeschi, finlandesi, ai grilli parlanti della finanza e dell'industria: noi non abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, e se lo stato italiano si è indebitato lo ha fatto spesso perché il nostro paese restasse stabilmente nel loro campo. Perdonate l'insistenza: loro hanno vissuto al di sopra dei nostri mezzi.


18 maggio 2012 - La questione dell'età

A proposito del recente e rinnovato dibattito sulla gerontocrazia (certamente fondato, per chi si occupi di politica, o di università, o di altri settori congelati in Italia nello stato in cui si trovavano decenni fa): non trovate curioso come l'età tenda a diventare l'unico fattore, categoria, concetto, su cui basare ragionamenti sulle prospettive della società? Come se non esistessero il genere, la classe, la cultura, eccetera? Come se la vera e rapida soluzione di tutti i mali presenti sia costituita dalla cessione immediata, da parte dei "vecchi", del loro "potere" in favore dei "giovani", così da metterli finalmente in condizione da sviluppare le loro "maggiori energie" e la loro "creatività"? Come se non si trattasse di rimuovere dalle loro posizioni di comando coloro che le occupano indegnamente (non sempre e non solo in ragione della loro età), ma semplicemente di fare piazza pulita di tutti gli ultracinquantenni?

Vi pongo, dunque, questa domanda. Secondo voi, i trader che scommettendo sul fallimento di interi Stati stanno mandando in rovina l'economia mondiale e le esistenze di milioni (miliardi?) di persone giovani e meno giovani, quanti anni hanno?

Potete trovare la risposta alla penultima riga dell'articolo "Dal mercante di Venezia alle follie di JPMorgan", di Paul Kennedy, a pagina 34 de l'Internazionale uscito oggi.


11 maggio 2011 - Tagliare le tasse, tagliare la cultura

Prima di passare a quello di cui vi volevo scrivere, una nota importante. Dovunque voi siate, dovunque votiate per le prossime comunali (se votate), non tralasciate di dare un voto alla lista. A una lista, e a un candidato di lista (uno solo). Se si vota solamente per il candidato sindaco, magari per uno scrupolo di unità e contro le divisioni tra i partiti, si rischia che quel sindaco, se eletto, non abbia una maggioranza in Consiglio.
(E poi, carissimi/e milanesi, se vi va di votare per me, nella lista di SEL, fate pure...).

Volevo accennarvi ai finanziamenti alla cultura, e ai relativi tagli: un tema che si discute molto.
C'è una tendenza, qui da noi, a considerare i tagli alla cultura (intesa nel senso più ampio, che include scuola e università) come una specie di fenomeno atmosferico: c'è la crisi, qualsiasi governo dovrebbe risparmiare, un governo di destra - "nemico" della cultura, d'accordo - taglia lì.
È tutto vero, ma forse perdiamo dei collegamenti.
La crisi del sistema basato sulla speculazione selvaggia c'è, e non passerà se non cambia quel sistema (avete visto il bellissimo documentario The Inside Job?). Ma i tagli alla cultura non ne sono una conseguenza diretta, "naturale".

Il bilancio dello stato migliorerebbe se ci fossero maggiori entrate fiscali, e le entrate fiscali sarebbero maggiori se si recuperasse l'evasione e se si esigesse il giusto dalla fascia più ricca (sempre più ricca) della popolazione. Ma i governi di destra invece tagliano le tasse ai ricchi. E per recuperare risorse tagliano la cultura. È un puro collegamento contabile? Minori entrate di qua, minori uscite di là?

No. George Lakoff, lo scienziato cognitivo e politologo statunitense, consulente per la campagna di Barack Obama, ha spiegato il meccanismo in un libro pubblicato durante la presidenza Bush: Don't Think of an Elephant (Non pensare all'elefante, Fusi Orari, Roma, 2006). I tagli (o i mancati aumenti) alle tasse dei più ricchi contribuiscono a garantire ai ceti più affluenti la possibilità di far frequentare ai figli università private e di accedere ai think tanks delle fondazioni culturali sostenute dai conservatori. D'altra parte, i figli delle famiglie meno ricche fanno fatica ad accedere all'università. E nel frattempo i tagli alla cultura rendono sempre meno efficace l'istruzione pubblica, e colpiscono direttamente le professioni intellettuali tradizionalmente più affini ai settori progressisti della politica. È una strategia deliberata, quella di colpire le istituzioni culturali filo-democratiche, mentre si favoriscono le carriere dei figli dei ricchi.

È un fenomeno solo statunitense? Ne siamo immuni?
Tutt'altro. Almeno se ricordiamo che la politica di tagli così ben orchestrata dall'asse Tremonti-Gelmini-Bondi (pace all'anima sua) risale perlomeno al proclama del 1993 (che dovrebbe essere più noto di quanto non sia) di Giancarlo Lombardi, allora vicepresidente di Confindustria e successivamente ministro della Pubblica Istruzione nel governo Dini (eh...).
Lombardi disse che l'obiettivo della formazione nel futuro avrebbe dovuto essere quello di creare "menti d'opera emancipate dal sapere critico".
Questa, carissimi e carissime, è la chiave della distruzione della scuola e dell'università pubbliche pianificata dalla destra italiana.

A sinistra c'è qualche imbarazzo a resistere: ricordo un articolo recente di Goffredo Fofi sull'Unità (30 aprile 2011). Un'incredibile difesa dei tagli (appunto, come se fossero nell'ordine naturale della cose), un attacco ai "finti intellettuali", che starebbero a lagnarsi della fine dei privilegi basati sull'impiego del denaro pubblico. È come se piovessero bombe (di un bombardamento deliberato e mirato) e si facessero le pulci a quelli che si nascondono nei rifugi (ma come ha detto qualcuno, quelli di sinistra si lavano poco).

Ma è ora, appunto, di voltare pagina e di cambiare aria. Ci siamo vicini, no?


28 aprile 2011 - Le elezioni per il Comune di Milano

Di solito a un candidato si chiede di presentare un programma, o almeno un elenco convincente di valori in cui crede e di cose che vorrebbe fare se eletto. Nonostante queste elezioni (come tutte negli ultimi vent'anni) si siano trasformate in un referendum sulla democrazia, e nonostante sia chiaro che a Milano l'obiettivo principale sia quello di togliere la città dalle mani del malaffare e di dare un segnale fortissimo alla politica nazionale, mi permetto di rubare un po' del vostro tempo per dirvi alcune delle cose per cui mi impegnerei se fossi eletto, e che vorrei comunque che fossero realizzate.

Milano non è una metropoli. Forse lo è stata, forse potrebbe diventarlo, ma malgrado la supponenza di chi l'amministra da decenni, è una città modesta, sotto molti aspetti inferiore (ad esempio, per benessere di chi ci abita) a tante città italiane di provincia. Qualunque sia la categoria in cui la vogliamo includere, Milano potrebbe migliorare, e di molto, se chi l'amministra avesse la voglia o il tempo di tener conto dell'esempio delle metropoli europee, magari visitandole e studiandole. In altro momento e in altra sede (sul mio sito) parlerò di vita musicale, di cultura, di università, del mio mestiere: qui vorrei parlare brevemente di trasporti, che coinvolgono me, come voi, come tutti i cittadini, per una durata giornaliera spesso non inferiore a quella del lavoro.

Il confronto di Milano, non dico con Parigi e Londra, ma con Barcellona, Berlino (che solo poco più di vent'anni fa era un avamposto diviso da un muro), o perfino Atene è sconsolante. Pensate che aeroporto ridicolo sia la Malpensa (e quanto se n'è parlato!) rispetto a quelli ai quali dovrebbe fare la concorrenza. Provate ad arrivare dalla Malpensa con l'omonimo 'Express', senza trovare una scala mobile in discesa che vi porti al livello dei treni della metropolitana. E lo stesso per la Stazione Centrale: anche a usare i bizzarri tapis-roulants che sembrano servire solo ad allungare il viaggio, si deve poi trascinare la valigia su scale in salita e in discesa, in un corridoio puzzolente. Se e quando faranno davvero la linea della metro che da Linate porta in città, ci si potrà arrivare in ascensore come nel resto del mondo, o ci sarà qualche altro trucco per accontentare la lobby dei tassisti?

Pensate agli orari della metropolitana: molti treni di superficie partono dalle varie stazioni di Milano anche un'ora prima che la metropolitana abbia aperto. E perché Milano non ha una stazione degli autobus? Non se ne poteva fare una sulla superficie delle ex-Varesine, risparmiando un paio di torri che resteranno vuote? No, meglio progettare un'autostrada sotterranea da Linate a Rho, con l'obiettivo pazzesco di mettere il traffico e l'inquinamento sottoterra (ma gli automobilisti respireranno i loro gas di scarico, o questi saranno pompati fuori nella città?).

Alcuni di questi vi sembreranno dettagli inessenziali. Ma è attraverso la somma di tutti questi dettagli che si crea una città dove usare la propria auto è meno conveniente che ricorrere al trasporto pubblico. Non ci sono, poi, ecopass e altre tasse che tengano: se metro, bus e tram sono scomodi (in quale c'è posto per mettere una valigia, anche quando passa da stazioni o aeroporti?), se la guida è a strappi e i passeggeri meno agili sono sbattuti avanti e indietro (nei "nuovi" tram, soprattutto), se le corsie preferenziali sono invase dalle auto (anche a causa dei parcheggi in seconda fila) e nessuno interviene, chi resiste – potendo – a prendere la macchina? E se le piste ciclabili non esistono, o hanno percorsi indifesi e assurdi, che alternative si offrono?

Alcune delle città che ho citato hanno un traffico paragonabile a quello di Milano (ma sono molto più grandi), altre anche peggiore (ma hanno rinnovato i loro trasporti pubblici più di recente e più rapidamente). Nessuna però offre l'immagine di incapacità di affrontare e risolvere i problemi del traffico che Milano e i suoi amministratori hanno presentato, da anni e anni. La speculazione, il disprezzo per la volontà dei cittadini e le esigenze dei più deboli (pensiamo alle vicende dei parcheggi sotterranei), le lobbies economiche e politiche fanno premio su tutto.
Ne vogliamo uscire?


12 giugno 2009 - Perché sono scomparsi i «dischi»

Sono appena tornato da un viaggio all’estero, dove ho potuto constatare la sparizione graduale (ma implacabile) dei negozi di «dischi», anche in città di più di tre milioni di abitanti. Ad Atene reggono un paio di megastore, ma lo spazio è occupato sempre di più da dvd e giochi; a Smirne non sono riuscito a trovare un solo negozio che avesse dei cd audio: tutti i grandi negozi che ho incontrato vendevano solo dvd e giochi, e quando in un quartiere periferico ho scoperto una bottega che sembrava promettere delizie musicali orientali, ho trovato che gli unici supporti audio erano cassette, e il resto erano dvd e dischi blue-ray.

Come ormai succede con sempre maggior frequenza, più ci si allontana dal «centro» e più si vede il futuro: il consumo di musica registrata su supporti fa parte di uno stile di vita del passato, giustificato dall’esistenza di appassionati ormai avanti con gli anni, che hanno ancora le loro collezioni e i loro apparecchi. Quasi impossibile, tra l’altro, trovare dei lettori di cd, se non sulle bancarelle.

Vi invito a dare un’occhiata al grafico pubblicato qualche giorno fa sul sito del Guardian. Dimostra la fondatezza di alcune valutazioni critiche su declino dell’industria fonografica, tra cui le mie (a partire da molti anni fa). Fin dai tempi dell’allarme sulla «copia privata», nei primi anni ottanta, le case discografiche hanno sostenuto che qualunque appropriazione di una registrazione attraverso pratiche non legali costituisse una vendita persa. Convinti della validità di una vera e propria assurdità economica, cioè la disponibilità infinita da parte del consumatore, i discografici affermavano che se invece di copiare un fonogramma il consumatore lo avesse comprato, avrebbe avuto comunque i soldi per comprarne un altro; si accanivano dunque (e lo avrebbero fatto per venticinque anni a seguire) contro i consumatori più amanti della musica e più attivi, chiamandoli “pirati”, nella convinzione che se avessero smesso di copiare (o, più tardi, di scaricare dalla rete) avrebbero comunque avuto le risorse economiche per comprare tutto quello che desideravano ascoltare.



Il grafico del Guardian, che si riferisce alle vendite in Gran Bretagna negli ultimi dieci anni di prodotti tipicamente consumati dal pubblico interessato anche alla musica, registra comunque un’espansione del mercato, ma ci fa vedere che la quota della «musica» (cioè dei supporti fonografici) è in continua contrazione. È vero, ed è anche ovvio, che se è possibile procurarsi lo stesso bene in una forma più agile, o addirittura senza pagarlo, si potranno spendere i propri soldi anche per procurarsi altri tipi di beni; ma quello che si vede dal grafico in modo molto chiaro è che ci sono altri beni che attraggono in modo irresistibile le risorse altrimenti dedicate alla musica: in particolare, i giochi. I giochi sono in decisa espansione, e sono gli unici responsabili dell’allargamento del mercato, essendo la «musica» in calo e i dvd ormai stabili da qualche anno.

Il grafico non mostra altri consumi concorrenti: telefoni cellulari e relativi servizi, fotocamere e videocamere digitali, computer e Internet, eccetera. Negli anni che i discografici ancora mitizzano (e nei quali, bisogna dirlo, si vendevano molti meno supporti fonografici di oggi) questi consumi non esistevano. Il verso della famosa canzone dei Rolling Stones, «what can a poor boy do except to sing for a rock ‘n’ roll band» non segnalava solo la condizione dei giovani londinesi rispetto agli studenti politicizzati del resto d’Europa, ma indicava l’orizzonte limitato delle possibilità di servirsi della tecnologia in modo creativo. Nel ’68 lo «stereo», insieme alla radiolina a transistor, era l’unica tecnologia elettronica di massa.

Oggi ampie fasce della popolazione preferiscono avere un cellulare, un pc, una videocamera, una Playstation, che una collezione di «dischi». Molti giovani (anche non tanto giovani) preferiscono far tardi la sera cimentandosi in rete in un gioco di ruolo che ascoltando l’ultimo album. E dunque quei tempi non torneranno più, cari discografici, neanche se un governo compiacente mettesse un poliziotto vicino al computer di ogni possibile downloader.


3 gennaio 2009 - Quelli che hanno fatto il Sessantotto

Si parla molto di “quelli che hanno fatto il Sessantotto”. Chi sono?
Il Sessantotto, come tutti sanno, copre un periodo abbastanza lungo: grosso modo dal 1967 (prima occupazione della Cattolica di Milano) o dai primi mesi del 1968 (Valle Giulia a Roma), alle elezioni politiche del 1976 (il 20 giugno, quelle del “sorpasso” mancato) o ai primi mesi del 1977.

Le prime occupazioni furono guidate da studenti che frequentavano gli ultimi anni dell’università, e che dunque avevano intorno ai 22-23 anni (come Mario Capanna, nato nel 1945). Una parte non piccola dei militanti che si unirono ai movimenti studenteschi lo fecero negli anni più duri della “strategia della tensione”, quindi tra il 1969 e il 1975: chi entrò all’università nel 1969 era nato nel 1950, mentre gli studenti delle medie superiori che affollavano le manifestazioni milanesi del 1975 (per le morti di Varalli e Zibecchi) erano nati nel 1957 o 1958.

La “generazione del Sessantotto”, quindi, copre una dozzina abbondante di anni (di nascita): tutt’altro che una sola leva, tutt’altro che omogenea dal punto di vista delle condizioni di vita durante l’infanzia e l’adolescenza e da quello della formazione culturale e politica. In quell’arco di leve (da quella del ’45 a quella del ’58), naturalmente, solo una minoranza “fece” il Sessantotto. Non tutti partecipavano alle manifestazioni, è ovvio, e una quota ancora più piccola militava in organizzazioni politiche (e se no, la famigerata “maggioranza silenziosa” da dove sarebbe venuta fuori?).

Il famoso “rapporto” del prefetto di Milano Libero Mazza del 1970 parlava di migliaia di estremisti armati; fu causa di polemiche e interrogazioni parlamentari il fatto che Mazza equiparasse a terroristi (potenziali o in senso proprio) tutti i militanti della sinistra extraparlamentare. Milano allora aveva un milione e seicentonovantamila abitanti: è chiaro che quelle migliaia (armati o no che fossero: ma quelli armati per davvero erano probabilmente poche decine) erano una decisa minoranza della popolazione, anche nella fascia demografica più coinvolta. Insisto su Milano, perché fu uno dei centri più rilevanti di quella stagione: se si estende il discorso all’Italia intera, è facile dedurre che quelli che “fecero” il Sessantotto furono davvero pochi. Molti, moltissimi, vissero in quegli anni la loro gioventù, ma appartengono all’anomala “generazione del Sessantotto” solo per appartenenza anagrafica e per averne respirato il clima.

Non voglio in questa sede nemmeno accennare a un giudizio sulla rilevanza di quel periodo e dei movimenti politici e culturali che ne furono protagonisti: è certo che l’Italia fosse nel 1968 l’unica democrazia nell’Europa meridionale, è certo che ci sia stato almeno un tentativo serio di colpo di stato della destra autoritaria, è certo che una strategia terroristica a base di attentati dinamitardi (con centinaia di vittime) sia stata ispirata e guidata dai servizi segreti, non solo italiani, con l’aiuto dei neofascisti, è certo che quello sia stato un periodo di emancipazione e conquista di diritti per i lavoratori, le donne, i giovani, i media, è certo che sia stato anche il momento e il terreno di coltivazione del terrorismo brigatista che esplose con la massima violenza a metà degli anni settanta.

Certamente “quelli che hanno fatto il Sessantotto” ne portano la responsabilità, in positivo, in negativo, per ciò che hanno realizzato e per ciò che non sono stati capaci di vedere o di fare. Sono comunque una minoranza, per di più segnata da una diaspora che rende quasi impossibile assimilare delle esperienze, creare delle categorie. In ogni caso, un sessantaquattrenne o un cinquantenne di oggi (o chiunque sia nato tra il 1945 e il 1958) non è necessariamente uno “che ha fatto il Sessantotto”. Anzi, statisticamente è molto più facile che sia uno di quella maggioranza che proprio non vi ha preso parte, che in quegli anni ha pensato alla carriera, si è divertito nel simpatico clima di promiscuità, ha cantato indifferentemente canzoni di Battisti o di Guccini, al massimo una o due volte (per moda) ha gridato uno di quegli “slogan orribili” di memoria morettiana (da Caro diario).

Negli ultimi tempi, forse anche per la nausea di dodici mesi di celebrazioni del quarantennale, capita spesso di sentire manifestazioni di fastidio o di critica severa verso la fantomatica “generazione del Sessantotto”. C’è chi l’accusa di aver preso il potere e di averlo usato male, c’è chi le rimprovera di non averlo preso, c’è chi vede sessantottini “traditori” dappertutto nelle stanze dei bottoni, c’è chi li compatisce come sconfitti. Ma quali sessantottini, di grazia? A quali dei numerosissimi percorsi individuali (politici, culturali, personali) ci si riferisce?

È curioso, ma questi discorsi generazionali – con toni moralistici – non sono mai stati fatti per le generazioni che fornirono le avanguardie e la base di massa del fascismo. E durante il Sessantotto gli antifascisti storici e i partigiani erano amati e rispettati, nonostante facessero anche loro parte (come sparuta minoranza) delle stesse generazioni che avevano applaudito il Duce, avevano donato l’oro alla Patria, erano corse ad arruolarsi per la conquista dell’Impero o per “spezzare le reni alla Grecia”.

I propri anni si portano con dignità, o con indegnità, a dipendere da quello che si è realizzato. Questo vale per tutti: sessantottini, settantasettini, quarantenni, trentenni, ventenni. L’importante è fare qualcosa, no?


8 dicembre 2008 - Lo straordinario spopola

Pare incredibile, ma dall’ultimo intervento sul mio Diario sono passati solo otto mesi. Sembrano otto anni. Ammetto la delusione e la malavoglia, ma prego i cari lettori di comprendere che avevo davvero da fare. Qualche prova? Da allora, dopo le elezioni, sono usciti due miei libri, ci sono stati tre concerti importanti degli Stormy Six (tanto importanti che potrebbero essere stati gli ultimi), ho vinto uno degli ultimi concorsi universitari prima della “riforma” Gelmini, ho potuto ascoltare dalla viva voce di una funzionaria del rettorato la frase indimenticabile: «Ma lei, invece che andare in pensione, si fa assumere come ricercatore?»
Dunque, in attesa di diventare rapidissimamente associato, poi ordinario, poi preside di facoltà e poi rettore (grazie al rapido svecchiamento dell’università promesso dal governo, e per poter dare una risposta convincente alla funzionaria), ed essendo prevedibile che prossimamente sarò di nuovo molto impegnato, approfitto di una brevissima vacanza per sottoporvi una riflessione.

Lo “straordinario” spopola. Da almeno un decennio è uno degli inquinanti linguistici peggiori. Quando lavoravo a Radio Tre non potevo scambiare due parole con un intervistato che già incappavo nell’odioso aggettivo. E dire che allora li avvisavo, e premettevo nella corrispondenza un elenco di sinonimi e di perifrasi. Poi mi è toccato subirlo da ascoltatore e da lettore. “Straordinario” è entrato nella lingua di legno degli intellettuali (soprattutto “di sinistra”, con molte virgolette), come surrogato di qualsiasi anche modestissimo tentativo di argomentare un giudizio. Il grande regista, l’esimio direttore, l’austero filosofo, l’acuminato critico, il pragmatico architetto (spero che si capisca che la precedenza all’aggettivo cerca di mimare la retorica socio-culturale corrente), dicono che il tale spettacolo, il tale melodramma, il tale saggio, la tale performance, il tale progetto è “straordinario”. Basta, non c’è bisogno di altro. Se lo dicono loro... “Il tempo è tiranno”, si sa. E anche lo spazio concesso sulle pagine dei giornali. Quindi, perché dilungarsi in spiegazioni: è “straordinario”, no?

Arriva sempre un momento in cui le parole, dal lessico dei VIP della cultura, approdano alla pubblicità. È successo anche a “straordinario”. Forse non proprio ora, ci può essere stata qualche avvisaglia precedente. Ma quando un aggettivo entra con un ruolo da protagonista in uno spot della Barilla, è fatta. L’ansia per lo “straordinario” diventa di massa. Come al solito, l’adozione della lingua dei VIP (di “certi” VIP) è anche uno strumento per connotare le caratteristiche upmarket del prodotto. Quando “straordinario” apparirà in uno spot della Lidl il processo sarà davvero compiuto. Ma la barillazione di “straordinario” ci insegna comunque qualcosa.

Primo: è il segno che il tagliar corto con un giudizio apodittico, dopo esser stato a lungo un giochetto dei potenti, penetra in tutti gli strati della società. “Assolutamente”. “Straordinario”. “Senza se e senza ma”. Anzi: “Assolutamente straordinario, senza se e senza ma”. L’esasperazione dello scontro e della certezza della propria visione. L’inutilità del ragionamento, la pretesa di “aver ragione”. Un modo di alzare la voce senza nemmeno sforzare la laringe. L’anticamera di ogni guerra civile (ah, ne sono assolutamente convinto!).

Secondo (però...): perché proprio “straordinario”? Perché questo bisogno di meraviglia, di eccezionalità? Forse per restituire valore a un mondo arido? Perché si è incapaci di vera meraviglia, di restare incantati sempre e da ogni cosa (dalla natura, dalle altre persone, dalle creazioni scientifiche e artistiche - tutte - dell’umanità), e ci si rifugia nella “straordinarietà” di qualche “evento”? Chi non si piega alla retorica dello “straordinario” si inchina a quella della fede. C’è bisogno di un dio, dell’aldilà, di ciò che comunque non appartiene alla nostra vita e possiamo sperare solo di contemplare. A chi serve, se nessuno riesce a riconoscersi nell’ordinario? A chi serve, se l’ordinarietà della nostra vita (della maggior parte della nostra vita) è svuotata di valore, e le cose “straordinarie” sono fuori dalla nostra portata? Ma perché, allora, non cercare valore – e meraviglia – nell’ordinario?

(Ah be’, se riesco a diventare ordinario ve lo racconto!).


6 ottobre 2007 - La linea del partito e quella dell'intellettuale

A chi può interessare di sapere se voterò o non voterò alle primarie del Partito Democratico? Forse nemmeno a quelli che continuano a spedirmi gentilmente inviti a farlo, per questo o per quel candidato (sono stato fra quelli che hanno votato nelle altre primarie: il mio indirizzo è noto, anche se pare che non dovrebbe essere usato).

Non voterò. Questo non è un invito ad altri a seguire il mio esempio, ma qualcuno che non vota ci deve pur essere, anche tra quelli che parteciparono alle primarie del 2005. I conti sono presto fatti: allora fummo più di 4 milioni, ora si farà festa se i votanti saranno più di un milione. Io sarò uno di quei più di tre milioni che mancheranno all’appello.

Non faccio politica attivamente. Credo di fare politica con ogni mia azione, con ogni cosa che scrivo, con i miei comportamenti pubblici e privati. Ma non faccio politica militante. Ho tentato di fare politica militante anche relativamente di recente, ma sono stato – per così dire – respinto. Per fare uno dei vari esempi possibili, quando, insieme a un collega che è uno dei maggiori esperti di sistemi informatici del nostro paese, sono andato a una delle riunioni di fondazione del PdCI (autunno del 1998), sono fuggito dopo un’ora e mezza di relazioni in stile anni ’60 sullo stato delle contraddizioni nel pianeta, che finivano inevitabilmente in mugugni su «quei delinquenti di Rifondazione». Ho partecipato all’assemblea di fondazione dell’Unione (a Roma, febbraio 2004), sprofondando in una noia televisiva mortale, dalla quale emergeva l’unico intervento da statista: ahimé, quello di Giuliano Amato. Di quei giorni ricordo molto di più un’altra cosa: l’annuncio alla televisione spagnola – colto al volo facendo zapping in albergo – di un José Luis Zapatero candidato allora dato largamente per perdente, che in caso di vittoria socialista le truppe spagnole sarebbero state ritirate dall’Iraq.

Non faccio politica in o con un partito (non avrei nessuna obiezione di principio a farlo), ma la subisco. Più o meno esattamente cinque anni fa la mia collaborazione (di alcuni anni) con Radio Tre, fino ad allora pienamente soddisfacente, si è interrotta perché le mie critiche all’uso della musica registrata con l’introduzione delle playlist non sono piaciute al nuovo direttore, installato dal governo di centro-destra. L’ex-nuovo direttore, ora, è direttore di tutta RadioRai. Né cinque anni fa, né dopo la vittoria elettorale dell’Ulivo, i politici del centro-sinistra si sono interessati della radio: figurarsi del mio caso personale. Quando si parla dei licenziamenti e delle esclusioni operate in Rai durante il governo di centro-destra, se va bene, si ricordano «Biagi, Santoro, Luttazzi, la Guzzanti e decine di altri collaboratori». Avete mai sentito un solo nome, di quelle «decine di altri collaboratori?» Avete mai sentito che qualcuno abbia ripreso a collaborare con la Rai?

Dall’inizio di questo decennio (chiamarlo secolo o addirittura millennio mi sembra ridicolo: chiamiamolo uno dei decenni di merda più recenti) ho lavorato, sempre più intensamente, nell’università. Da allora i modestissimi compensi per questo lavoro sono soggetti, ogni anno, a una tassazione crescente (non vorremo che questi lavoratori autonomi la facciano franca con l’Inps, vero?), ed essendo rimasti rigorosamente invariati in cifra lorda sono progressivamente diminuiti al netto delle tasse e dei contributi. Il ministro dell’Università, l’anno scorso, ha dichiarato che se nella finanziaria di quest’anno non ci fossero state risorse sufficienti si sarebbe dimesso. Ci saranno? Chi lavora nell’università le vedrà, o finiranno in una partita di giro? E se non ci saranno, si dimetterà? Il fatto che l’onorevole Mussi (persona rispettabile) abbia deciso di non entrare nel PD non cambia la mia insoddisfazione: giro comunque la domanda al suo vice Nando Dalla Chiesa, caro amico.

Infine, stamattina scopro che la piazza più vicina a casa mia, Piazza Bernini, a Milano, sarà sventrata tra poco per costruire un parcheggio sotterraneo, per un centinaio di posti auto, con rituale eliminazione di una decina di alberi di alto fusto in perfetta salute, sconvolgimento del traffico per almeno due anni (almeno secondo la data dichiarata di termine dei lavori), mentre a poche centinaia di metri è ancora aperta la voragine di via Ampère, dove gli scavi hanno minacciato di far crollare i palazzi adiacenti. Questa politica di speculazione feroce, che non dà nessun beneficio ai cittadini, regalando terreno pubblico a immobiliaristi e costruttori amici degli amici, è stata contrastata a Milano solamente dagli abitanti dei quartieri. Ha suscitato più contraddizioni all’interno della stessa maggioranza di centro-destra che l’opposizione intransigente del centro-sinistra. Quando stamattina ascoltavo la gente del quartiere desolata e arrabbiata, avrei avuto la tentazione di dire: «Avete votato la Moratti? Ecco quello che vi meritate.» Ma ho taciuto, perché non ricordo che nessuno degli esponenti del centro-sinistra milanese (ora candidati per le primarie del PD) abbia speso una parola sul modo in cui la speculazione negli ultimi anni ha messo le mani sul sottosuolo della città.

Spero che tutto questo non passi per «antipolitica». O che contribuisca a spiegarla. La mia posizione non è dissimile da quella dell’intellettuale nella barzelletta grafica che un filosofo comunista di Berlino Est mi disegnò su un tovagliolo di carta circa venticinque anni fa, e che con piacere riproduco sul mio sito. Sarò uno di quei tre milioni che non voteranno. Può darsi che mi abitui.




23 gennaio 2007 - Musica d'arte e di consumo

Mi è difficile trattenere delusione e sconforto per l’intervista di Fabio Fazio a Maurizio Pollini, durante la trasmissione “Che tempo che fa” di domenica 21 gennaio.

Molti musicofili (amici e colleghi che ho sentito a voce, altri che ho letto su vari blog) hanno criticato Fazio, per quella che è stata ritenuta “ostentata incompetenza”. Non entro nel merito. Può darsi che Fabio Fazio sia a disagio col repertorio “colto” (credo sia noto che si è laureato a Genova nel 1990 con una tesi su Elementi letterari nei testi dei cantautori italiani), ma a me il suo atteggiamento è parso più che altro una forzatura del ruolo di “popolarizzatore” che si ritiene spetti ai conduttori televisivi. Col rischio che – mentre Fazio cercava di spiegare al “grande pubblico” i concetti espressi da Pollini – il grande pubblico di Pollini, che si sarà messo all’ascolto della trasmissione, avrà trovato il livello dell’intervista inadeguato alla propria competenza, più alta.

Ma quello che mi ha deluso e sconfortato è stato proprio Maurizio Pollini, persona che ammiro fortissimamente, e che considero (se non altro per certe battaglie condotte dalla stessa parte, a cominciare da “Musica nel nostro tempo”) un amico. Non era la prima volta che sentivo parlare Pollini alla televisione, degli stessi argomenti che ha toccato il 21 gennaio. C’è stato un programma di RaiSat, intitolato (credo) “Musica della rivoluzione”, nel quale venne riproposto qualche anno fa il filmato di uno degli storici concerti dei primi anni settanta: forse al Comunale (oggi Valli) di Reggio Emilia, nel 1973, nel quadro delle manifestazioni di “Musica/Realtà”.

Claudio Abbado e Maurizio Pollini avevano presentato composizioni di Luigi Nono, e al termine i tre musicisti avevano sollecitato il dibattito col pubblico. Un giovane si era alzato, aveva detto di aver apprezzato molto la musica di Nono, ma di trovarla tutto sommato ostica; credendo di spiegarsi, aveva detto che gli piacevano molto i King Crimson. Ma né Nono, né Abbado, né Pollini sapevano chi fossero i King Crimson, e quindi era loro sfuggito il sottinteso del commento: che la musica di Nono risultava difficile al giovane ascoltatore, nonostante apprezzasse un rock tra i più radicali dell’epoca (più di vent’anni dopo, un eminente musicologo mio amico fraterno, ascoltando durante una mia conferenza un brano dei King Crimson registrato nel 1973 al Concertgebouw, mi disse: «Però, mica male questo minimalista. Chi è?»). Quindi, il commento scatenò un fuoco di fila, nel quale Maurizio Pollini era particolarmente acceso, contro la “musica di consumo”, prendendo di mira soprattutto gli arrangiamenti mozartiani di Waldo de Los Rios. Che coi King Crimson c’entravano moltissimo, evidentemente.

Durante l’intervista con Fazio, Pollini ha ripreso quasi con identici accenti (forse con meno scandalo) la stessa tripartizione statica e contraddittoria dell’universo musicale: la musica d’arte (ottima), la musica popolare (spesso molto buona, vedi l’uso che ne hanno fatto Beethoven e Bartók), la musica di consumo (brutta, onnipresente e inutile, col suo ostinato “bum bum” ritmico), più il jazz, che in alcuni casi è davvero musica d’arte. La spiegazione che Pollini (malgrado le frenate di Fazio) ha cercato di dare della varietà e della sottigliezza ritmica della musica d’arte rispetto alla musica di consumo, citando il caso del Sacre di Stravinsky, sarebbe stata molto utile trent’anni prima: forse il giovanotto emiliano avrebbe potuto spiegare che la ragione per cui lui e moltissimi cultori del progressive rock frequentavano la musica dei King Crimson era proprio la presenza di metri addittivi, di armonie politonali, di scale inusitate. Se Fabio Fazio avesse un minimo di conoscenza della popular music al di fuori della canzone d’autore italiana, avrebbe potuto citare a Pollini i nomi di Frank Zappa, dei Gentle Giant, dei Genesis (per non andare verso nomi troppo “difficili”); e che dire della popular music greca, turca, mediorientale?

L’arte, nel discorso di Pollini, si identifica con la qualità, e la qualità “fa bene”. Visione politicamente condivisibile. Ma la qualità è una proprietà esclusiva del repertorio “colto”? E chi la decide: è un dato universale, stabilito a priori o da una cerchia di eletti? O è socialmente organizzata? Pollini non si domanda come mai il jazz è stato a lungo considerato (negli ambienti “colti”) una musica rozza – tanto che lo stesso Adorno ne scriveva male anche dopo Monk, Parker, Davis, Coltrane – e solo negli ultimi trent’anni è entrato nel pantheon della musica d’arte? È forse cambiato il jazz, o è cambiato il giudizio da parte degli amanti della musica colta?

Contrapporre in modo così rude la qualità della musica d’arte alla banalità di quella di consumo, senza minimamente contemplare l’esistenza di popular music diversa da quella presentata in forma di caricatura, serve a conquistare alla musica colta nuovi ascoltatori giovani? O non serve piuttosto a creare un piccolo gruppo di nuovi snob, convinti della qualità della musica d’arte senza avere strumenti di comprensione diversi da quelli del più ottuso ascoltatore di “bum bum” ritmici?

Molti anni fa, durante un incontro nel quale Pollini mi aveva detto: «Tu che ti occupi di jazz...», sottintendendo un apprezzamento (mai che io mi occupassi di “musica di consumo”!), gli avevo promesso che gli avrei fatto avere una cassetta con una selezione di brani di popular music che secondo me, a un musicista raffinato come lui, avrebbe fatto comprendere all’istante che la questione della qualità e del valore estetico è più complessa e articolata di quello che il dualismo “d’arte”/”di consumo” lascia intendere. Una copia di quella piccola antologia, con la scritta “cassetta di Maurizio” dev’essere ancora tra le mie cassette. Mi sa che mi toccherà rispedirla.


18 dicembre 2006 - Minimo comune denominatore

L’ultimo in ordine di tempo (per me) è stato Pier Ferdinando Casini, ma quello che ho da dire è rigorosamente bi-partisan (aaaaargh!).

Dunque, anche per Pier Ferdinando, come per tutti i politici italiani (aspetto smentite), i conflitti fra le coalizioni o all’interno di una coalizione possono essere risolti trovando un “minimo comune denominatore” fra le diverse posizioni. È comprensibile, quindi, che i conflitti non si risolvano e che il clima sia sempre più esacerbato: perché il minimo comune denominatore non esiste!

Esiste il minimo comune multiplo (mcm) che, dati due interi a e b, è il più piccolo intero positivo che è multiplo sia di a che di b. Esiste anche il massimo comun divisore (MCD) di due interi, che non siano entrambi uguali a zero: è il numero naturale più grande per il quale possono entrambi essere divisi.

Ma il minimo comune denominatore proprio non c’è. Sì, è vero: quando si sommano due frazioni il denominatore comune si calcola facendo il minimo comune multiplo dei denominatori delle frazioni da sommare: ma una volta ottenuto quel denominatore, non è minimo rispetto agli altri denominatori. Ad esempio (traggo l’esempio da Wikipedia), la somma di 2/21 più 1/6 è 11/42, e chiunque vede che 42, per quanto sia il minimo comune multiplo tra 21 e 6, non è “minimo” né “comune” rispetto ai “denominatori” 21 e 6.

Il fatto che i politici (tutti, salvo smentita) siano ignoranti di aritmetica non mi colpisce. Quello che mi preoccupa è che, come indica la scelta di una metafora così balorda (cfr. G. Lakoff, M. Johnson, Metaphors We Live By, The University Of Chicago Press, 1980), siano ignoranti anche di politica.


1 novembre 2006 - Quanto vale la musica in Italia?

Una ricerca realizzata dal Centro ASK dell’Università Bocconi ormai ogni anno permette di accedere a un resoconto dettagliato dell’economia della musica in Italia. Una “stima del valore del sistema musica in Italia” offriva per il 2004 – l’ultima ricerca fu presentata a dicembre del 2005 – un totale di oltre due miliardi di euro: per la precisione, 2284,2 milioni di euro (la tabella ASK riporta “migliaia di euro”, ma si tratta di una svista).

È una cifra notevole, e sembrerebbe confermare l’obiettivo originario della ricerca promossa dal CORAM (un coordinamento di operatori del settore) nel 2001, sempre con il contributo scientifico della Bocconi, e della quale le ricerche successive hanno conservato l’impostazione e le fonti. Il comparto musicale – si sottintendeva allora e si continua a sottintendere – costituisce una componente non trascurabile dell’economia del Paese, e quindi se lo Stato non prende i provvedimenti che gli operatori del settore sollecitano, non solo danneggia la vita culturale della nazione, ma anche colpisce un ramo potenzialmente prospero dell’industria, penalizzando investimenti, contribuendo alla perdita di posti di lavoro, e così via. Un modo del tutto legittimo, a prima vista astuto, di catturare l’attenzione dei politici, in gran parte poco sensibili alle esigenze della cultura e della musica in particolare. All’epoca della presentazione della prima ricerca veniva dato molto risalto ai risultati di uno studio condotto negli USA, dal quale risultava che gli studenti che suonavano uno strumento avessero voti migliori in matematica e nelle materie scientifiche. L’idea che la musica e la cultura non abbiano un valore in sé, ma che servano ad altro (dallo studio della matematica al turismo) e solo in questa dimensione subordinata possano essere prese in considerazione e valorizzate, da allora ha fatto una certa presa sui politici italiani, come si può facilmente ricavare dalla lettura del programma elettorale dell’Unione.

Ma, tornando ai risultati della ricerca, viene da chiedersi se davvero il valore del sistema musica in Italia sia ragguardevole, e giustifichi da solo l’eventuale attenzione della politica. Come ho già fatto l’anno scorso per i miei studenti, ho confrontato i dati della Bocconi con i risultati dei principali gruppi industriali italiani nello stesso anno. A questo riguardo, la mia fonte per il 2004 è costituita da uno studio R&S Mediobanca, pubblicato la scorsa estate su la Repubblica.

L’industria musicale nel suo complesso, comprendendo la discografia, lo spettacolo dal vivo e le sale da ballo, l’editoria musicale, l’industria degli strumenti musicali, le scuole di musica, genera un volume di affari che è inferiore a quello di singoli gruppi industriali collocati intorno al ventesimo posto della graduatoria nazionale: i 2284,2 milioni di euro del sistema musica si confrontano con i 3255 di Luxottica, i 3100 di Indesit, i 2772 di Buzzi Unicem, così come nel 2001 il valore di tutto il comparto musicale superava di poco il fatturato della Barilla (da sola), ed era il doppio di quello di Armani. Chi fosse interessato ai dati completi (e alle ricerche CORAM e ASK) li può scaricare dal mio sito, alla pagina http://www.francofabbri.net/pagine/Uni_Download.htm (sotto il titolo Materiali per gli studenti).

Vorrei fare qui solo due brevi considerazioni.

1) Le ricerche come quelle del Gruppo ASK sono utilissime, vanno incoraggiate, si deve fare sì che i loro risultati siano conosciuti ampiamente, vanno estese e perfezionate, ma non ci si deve illudere che compensino la disattenzione dei governi verso le ragioni della musica. Le ricerche fotografano l’intero comparto musicale come una singola azienda in grave crisi (l’Alitalia, per dimensioni, si offre facilmente al confronto), e la mia opinione è che il rapporto fra valore economico del comparto e considerazione del valore culturale della musica vada precisamente ribaltato: non è il valore economico che può far comprendere l’importanza della musica nella vita nazionale, ma è la marginalizzazione, l’umiliazione del valore culturale della musica nel nostro Paese a fare sì che l’industria musicale sia così poco significativa economicamente.

2) Nelle ricerche della Bocconi non è mai apparso un dato sulle apparecchiature di riproduzione del suono (in quella del 2005 il dato è indicato come “non disponibile”). Ci sono buone ragioni metodologiche perché questo non sia avvenuto: non è sempre facile ascrivere tutte queste apparecchiature a un impiego musicale in senso stretto, e i dati sono certamente eterogenei e di difficile raccolta. Certamente i lettori di cd e di mp3, gli impianti hi-fi, gli impianti per le discoteche dovrebbero rientrare, mentre è più difficile valutare il peso da dare alle radio, alle autoradio, agli home-theater, e (perché no?) ai televisori e ai pc. Anche solo limitandosi agli iPod, a cd e masterizzatori e agli hi-fi “classici” si tratterebbe di cifre considerevoli, che aumenterebbero non di poco il valore del comparto musicale. Ma a me pare che la mancata inclusione di quei dati rifletta un carattere difensivo dell’industria musicale che è a sua volta sintomo (e causa) della sua crisi. Non credo che ci sarebbe da scandalizzarsi se qualcuno sostenesse che la radio non potrebbe esistere senza i prodotti dell’industria musicale; in misura minore lo si potrebbe dire della televisione; quanto il mercato dei pc e di Internet oggi sia guidato dalle attività musicali (scaricare files, masterizzare, ecc.) ce lo dicono le stesse pubblicità delle maggiori aziende del settore. La musica muove interessi colossali, ma l’industria musicale contempla il proprio ombelico, e lo trova piccolo, sì, ma bello.
Il mio corso di Economia dei beni musicali (corso di laurea in Scienze e Tecnologie della Comunicazione Musicale) inizia l’8 novembre 2006 alle 15:30 (Via Comelico 39/41, Milano, Aula Alfa).


18 luglio 2006 - Saluti

Al termine dello sciopero dei taxi, con giornalisti picchiati e passanti insultati, dopo il blocco ferroviario da parte dei tifosi di una squadra retrocessa, e precedenti disordini con un fotografo in prognosi riservata ecc. ecc., mentre in Libano e Israele ci si bombarda, e dopo che (mirabile confluenza del tutto) un gruppo di tifosi della nazionale è passato canticchiando minacciosamente il pò pò pò davanti a un ristorante libanese dove cenavo, parto. Come forse dimostra la foto qui sotto, scattata all'Avana qualche settimana fa, è meglio essere in piccola ma buona compagnia. Un abbraccio a tutti.




27 marzo 2006 - La dichiarazione IVA di Prodi

Riporto un breve stralcio della notizia che l’edizione on-line di Repubblica dedicava il 26 marzo sera all’intervento di Romano Prodi alla manifestazione “L’Unione fa la Musica”.

Prodi ha individuato anche alcuni punti che questa legge dovrebbe toccare, e ha anche sottolineato che occorre che vi sia un coordinamento tra i ministeri competenti: “Per quanto riguarda l'Iva – ha detto Prodi – penso a una diminuzione dal 20 al 15 cento ma, non illudiamoci che questo cambia il mercato. Ridurre l'Iva è un atto, certo, di giustizia”.

Ho l’impressione che il cronista non abbia capito bene (non solo la consecutio e la punteggiatura): del resto l’articolo pubblicato sull’edizione cartacea del quotidiano, il 27 marzo, non porta tracce della presunta dichiarazione di Prodi sull’IVA.
L’argomento, ovviamente, è l’IVA sui prodotti fonografici, che è attualmente del 20%. Spiego qui di seguito perché – secondo me – è impossibile che Romano Prodi abbia veramente detto quello che la notizia gli attribuiva.

Nei paesi dell’Unione Europea esiste un’aliquota IVA ordinaria, che i paesi sono liberi di variare entro un minimo e un massimo.
Per esempio (la lista completa si trova qui: http://www.e-services.agenziaentrate.it/aliquote_iva/aliquote_iva-01.htm), l’aliquota ordinaria a Cipro è del 15% (valore minimo), in Gran Bretagna è del 17,5%, in Svezia del 25% (valore massimo). In Italia è del 20%.

Esistono poi aliquote ridotte (al massimo due), che le singole legislazioni nazionali applicano a prodotti e servizi particolari. Per esempio, la Danimarca non ha aliquote ridotte, la Gran Bretagna ne ha una (il 5%), l’Italia ne ha due (quella ridotta del 10% e quella superridotta del 4%). Le direttive comunitarie stabiliscono rigorosamente l’applicabilità delle aliquote ridotte a questo o a quel bene o servizio (l’elenco si trova nell’allegato H della Sesta Direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, successivamente modificata, che si può vedere qui: http://europa.eu.int/eur-lex/it/consleg/pdf/1977/it_1977L0388_do_001.pdf).
La ragione è semplice: il trasferimento di una certa categoria di beni a una aliquota ridotta non deve rientrare nell’autonomia decisionale dei singoli stati, dato che provvedimenti unilaterali sarebbero turbativi della concorrenza.

Questo è il quadro normativo che ha finora impedito la riduzione dell’IVA sui fonogrammi. I fonogrammi non sono compresi nella lista dei beni ammessi alle aliquote ridotte; le uniche possibilità per ridurre l’IVA “sui dischi” sono le seguenti: 1) ridurre l’aliquota ordinaria, cioè su tutti i beni e servizi; 2) rinegoziare la direttiva europea sulle aliquote ridotte.

La prima ipotesi è inapplicabile, per gli effetti devastanti che avrebbe sul gettito, e in ogni caso non avrebbe il carattere selettivo, rivolto ad aiutare l’industria discografica in crisi, che viene invocato dagli operatori del settore. La seconda ipotesi trova un’opposizione determinatissima da parte di alcuni stati membri, in particolare la Gran Bretagna: quindi, occorrerebbe un’azione concertata di molti paesi dell’Unione, col rischio comunque di trovarsi di fronte a un veto (le modifiche all’elenco dell’allegato H devono essere approvate all’unanimità).

Se ne era accorta a suo tempo la titolare del ministero della cultura del governo Zapatero appena insediato, che aveva prima annunciato in pompa magna la riduzione dell’IVA sui dischi in Spagna, per fare una precipitosa marcia indietro (del tutto ignorata dai media) pochi giorni dopo.

Quindi, ridurre l’IVA sui fonogrammi dal 20% al 15% sarà senz’altro un atto di giustizia, ma è quasi impossibile da realizzare: Prodi, con la sua esperienza europea, non può non saperlo.


13 marzo 2006 - Se ne vado

«Che lei si alzi e se ne vada è una cosa che lei non può dire», ha detto Lucia Annunziata all’inizio del battibecco finale con Silvio Berlusconi, nella ben nota intervista del 12 marzo. E cosa ha risposto il Presidente del Consiglio? «Allora, mi alzo e se ne vado.» Un piccolo lapsus. Può essere interpretato in due modi:

1. Berlusconi ha una scarsa padronanza della lingua italiana;
2. quando è alterato, Berlusconi dice quello che pensa veramente: e cioè che lui si alza, ma in realtà è Lucia Annunziata che se ne va.

Teniamone conto, perché anche quando gli elettori gli avranno detto che se ne deve andare, farà di tutto perché siano loro ad andarsene. Non è un errore, e non è uno scherzo.


2 novembre 2005 - Rock e lento

Chissà se avevamo davvero bisogno del giochino “rock/lento”. Nuovo, comunque, non è: si rigenera a qualche anno di distanza dall’edizione precedente, cambiando titolo per le due categorie. Negli anni d’oro del rock si chiamava “in/out”. Però Adriano Celentano e i suoi autori potevano trovare un nome diverso per la categoria “out”: “lento” funziona malissimo. Prima di tutto, per ragioni logiche: Celentano, o chi per lui, contrappone due categorie, una delle quali però implica l’altra. Mi spiego. Fin dall’epoca del rock ‘n’ roll originale, quello al quale Celentano si è sempre ispirato, il genere era definito dalla compresenza nel repertorio di brani veloci, agitati (Blue Suede Shoes, All Shook Up) e di brani lenti (Love Me Tender, Crying In The Chapel). Il personaggio di Elvis Presley, e con lui il rock ‘n’ roll “classico”, sostanzialmente si regge grazie all’identificazione fra la sovreccitazione del bulletto di provincia con la tenerezza romantica del bravo studente, e sulla difficoltà di decidere quale dei due sia più pericoloso. Dunque, fin dagli anni cinquanta “rock” e “lento” non sono contrapposti, ma due anime (Jekyll e Hyde?) della stessa musica. Quando poi, nella seconda metà degli anni sessanta, la musica diretta al consumo simultaneo di un largo pubblico giovanile di massa (la definizione è di Simon Frith) comincia a chiamarsi “rock” e basta, la “slow rock ballad”, cioè il “lento” del “rock”, diventa una componente ancora più significativa del genere. È mai possibile immaginarsi il rock senza Yesterday, Lady Jane, Michelle, Since I’ve Been Loving You, Wish You Were Here? Quindi il rock è anche lento. Se posso aggiungere una considerazione personale, il fatto che Celentano, per accontentare la parrocchietta, abbia qualificato Zapatero come “lento” mi è parso squallido, ai confini del miserabile. Ma se Zapatero è “lento” come It’s All Over Now, Baby Blue, come For No One, come God Only Knows, come A Salty Dog, come Bridge Over Troubled Water, come Imagine, come Purple Rain, e Celentano è “rock” come Prisencolinensinainciusol e come Tre passi avanti, non ho dubbi su chi e che cosa scegliere.


1 luglio 2005 - Dove sono i nostri Billy Bragg?

Ho un’opinione (modesta e poco originale, lo so): che la fame dell’Africa sia il risultato di secoli di rapina delle risorse naturali e umane di quel continente da parte della “civiltà occidentale”. Capisco che risvegliare centinaia di milioni di coscienze addormentate, anche solo sulle conseguenze tragiche di quella rapina, possa essere utile. Ma se non si fa niente per accennare (almeno!) alla causa principale della rovina dell’Africa, si rischia di ingigantire quel circolo vizioso di aiuti, corruzione, debiti che alimenta i conti in banca di qualche dittatore e il giro di affari delle imprese occidentali coinvolte nelle opere finanziate dagli aiuti.

Non discuto la buona fede di Bob Geldof, né di alcuno dei musicisti coinvolti nel Live Eight. Ma mi fa specie la presenza del tutto minoritaria – soprattutto nel programma di Roma – di cantanti e gruppi che abbiano fatto della lotta contro quella rapina una ragione profonda della loro attività artistica. Non importano le etichette politiche; chiamiamola lotta antimperialista, anticapitalista, chiamiamola pure indipendenza artistica, dignità personale: credo che chiunque legga queste righe abbia idea del profilo dei musicisti che potrebbero salire sul palco del Circo Massimo dando il senso di una radicata e radicale solidarietà con la tragedia africana e con tutti gli oppressi del mondo, e di quelli che invece sarebbero comunque bene accolti per una testimonianza, ma la cui traiettoria artistica e professionale si è sempre mossa lontanissimo da quella solidarietà. Ora, è evidente che questi ultimi siano in larghissima maggioranza.

Intendiamoci bene, non invoco una selezione di “duri e puri”. Ma, vivaiddio, questa è una manifestazione politica, secondo le chiarissime indicazioni dei promotori. E allora assume un segno politico illuminante (e poco gradevole) non la presenza di Biagio Antonacci, Laura Pausini, Cesare Cremonini e di tutte le altre benemerite star del pop che hanno voluto partecipare, ma l’assenza (che non si può non pensare sia deliberata, programmata) di tanti altri nomi che certamente rappresentano meglio presso i giovani italiani le istanze di lotta contro lo sfruttamento e la povertà. L’elenco sarebbe lunghissimo, ma basterebbe voler dare un’occhiata alla programmazione dei centri sociali, delle feste politiche, e perfino alle classifiche di vendita dei dischi per rendersene conto. C’è una lunga storia, che va dai Cantacronache alle posse, che è stata messa alla porta. Come al solito, bisogna dire.

Insomma, a Edinburgo ci sarà Billy Bragg. Dove sono i nostri Billy Bragg, il 2 luglio? Forse la direzione artistica del concerto romano (toh! Un discografico!) ha valutato che ci avrebbero fatto fare brutta figura?



26 maggio 2005

You’ll Never Walk Alone è stata scritta da Richard Rodgers (musica) e Oscar Hammerstein II (parole), per il musical Carousel, che debuttò a Broadway il 19 aprile 1945. Il clima della Seconda Guerra Mondiale, che stava per finire, non è certamente estraneo al carattere sia della melodia che del testo. La canzone ha avuto molti interpreti, tra i quali Judy Garland, Frank Sinatra, Perry Como, Conway Twitty, Nina Simone.

Nell’ottobre del 1963 uscì una versione su 45 giri di Gerry and The Pacemakers, un gruppo di Liverpool che dal giugno del 1962 aveva firmato un contratto con Brian Epstein e incideva per la Columbia sotto la direzione artistica di George Martin. Il singolo salì al secondo posto delle classifiche inglesi nella settimana del 26 ottobre, dopo Do You Love Me? di Brian Poole and The Tremeloes e davanti a She Loves You dei Beatles, e fu al primo posto per tutto novembre, prima di cedere proprio ai Beatles.

Oltre che dai tifosi del Liverpool, che l’hanno adottata come inno ufficiale, la canzone è stata a lungo cantata durante le marce per la pace negli anni sessanta.

Il testo dice così: «Quando cammini in una tempesta / tieni alta la testa / e non aver paura dell’oscurità. / Alla fine della tempesta / c’è un cielo dorato / e il canto dolce e argentino dell’allodola. / Continua a camminare nel vento / continua a camminare nella pioggia / nonostante i tuoi sogni siano scossi e agitati… / Cammina, cammina, con la speranza nel cuore / e non camminerai mai da solo / non camminerai mai da solo.» Ferale per il Presidente del Consiglio, l’ascolto della canzone potrebbe essere suggerito (e magari imposto) ai politici dell’opposizione, sostituendo il futuro degli ultimi due versi con un imperativo.


25 maggio 2005

A un mese di distanza, riparo a una mancanza di informazione. Durante lo spettacolo di Appunti partigiani del 25 aprile scorso gli Stormy Six hanno eseguito per la prima volta una nuova orchestrazione di Stalingrado e La fabbrica. Al gruppo (erano presenti Carlo de Martini, Tommaso Leddi, Umberto Fiori, Franco Fabbri, Pino Martini) si sono aggiunti gli archi di una formazione proveniente da varie orchestre, compresa quella del Teatro alla Scala: Daniele Parziani e Alessandro Vavassori (violini), Francesco Lattuada e Danilo Rossi (viole), Luca Franzetti e Mario Brunello (violoncelli), Omar Lonati (contrabbasso). L’orchestrazione era a cura di Tommaso Leddi e Carlo De Martini.

A giudicare dalle reazioni del numerosissimo pubblico presente e dai messaggi che sono arrivati nei giorni successivi, è stata una bella cosa. Naturalmente nessun giornale ne ha dato notizia, ma questo è del tutto normale. Purtroppo senza gli archi aggiunti, le due pericolossime canzoni (da evitare accuratamente in festival, spettacoli e dischi “di sinistra”, come il Primo Maggio, il Mantova Musica Festival, le antologie discografiche dedicate alla Resistenza) saranno eseguite nuovamente nella serata inaugurale del Mittelfest, a Cividale del Friuli, il 16 luglio 2005. È un luogo periferico, i moderati possono stare tranquilli.


18 maggio 2005

Due piccole osservazioni sulla laurea in Scienze della Comunicazione conferita a Vasco Rossi:

1) Chissà se i colleghi giornalisti impareranno mai che la laurea ad honorem la si dà ai morti (quella che si dà ai vivi si chiama laurea honoris causa). Pare che la toga indossata da Vasco Rossi allo Iulm costasse 700 euro. Si spera che fosse abbastanza ampia per permettergli di fare discretamente i debiti scongiuri.

2) Vasco Rossi è un bravo autore di canzoni, un ottimo cantante rock, un grande comunicatore, non si discute. Ed è anche una persona cordiale e rispettabilissima. Non c’è nulla di male se lo Iulm (oltre che farsi un po’ di pubblicità) ha ritenuto di premiarlo. Però, non molto tempo fa, alla stessa università è stato proposto di ospitare la conferenza internazionale della più grande associazione di studi sulla popular music, dove sarebbero intervenuti più di trecento studiosi di oltre trenta paesi, a portare i risultati delle loro ricerche, coltivate nelle numerosissime università di tutto il mondo (Italia compresa) dove si studia seriamente la popular music. I responsabili dello Iulm hanno detto che non erano interessati. La conferenza si farà lo stesso, alla Sapienza di Roma, dal 25 al 30 luglio 2005. I colleghi giornalisti e capiservizio che hanno dedicato alla laurea di Vasco Rossi colonne e colonne, sono gentilmente invitati ad assistere. Come uno degli organizzatori mi aspetto – prima o poi – una laurea honoris causa (ma anche ad honorem andrebbe bene lo stesso).


9 maggio 2005

Quando canto “… gli alpini che muoiono, traditi lungo il Don”, in una canzone che ho scritto qualche anno fa (giù la maschera: nel 1973), ho in mente alcune cose precise. Il fratello di mio padre, mio zio, il tenente Guido Fabbri, è morto in Russia. Era nella divisione Julia, battaglione Cervino. A quanto pare fu visto l’ultima volta avanzare a mani nude contro un carro armato sovietico. Gli hanno dato la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, che fu appuntata in una cerimonia commovente sul petto del futuro autore de La fabbrica e coautore di Stalingrado. Il mio.

Oggi festeggio (non celebro: festeggio) insieme a voi la vittoria dell’Unione Sovietica e degli altri Alleati contro il nazifascismo, convinto che quella vittoria abbia liberato non solo gli antifascisti, non solo quelli come mio zio che andarono al fronte per senso del dovere e patriottismo, ma anche gli stessi fascisti, molti dei quali – se avessero vinto – se ne sarebbero pentiti amaramente.

Certo, ci sono molte ragioni per cui questa festa non può essere gioiosa come altre: non ultime che il nazismo e il fascismo esistono ancora, che ancora c’è la guerra, e che molti delitti compiuti da fascisti in questi ultimi sessant’anni sono rimasti impuniti. E, naturalmente, che quella vittoria è stata per molti europei l’inizio di un periodo oscuro, come insistono quotidianamente gli opinionisti.

Nonostante il titolo della canzone che ho cantato mille volte – che ripete il nome della città la cui resistenza ha cambiato il corso della guerra, come concordano gli storici di ogni tendenza – non sono né stalinista, né esperto di Stalin. Mi ricordo solo (cosa di cui quegli opinionisti sembrano dimenticarsi) che Stalin morì nel 1953, che i suoi crimini vennero denunciati da Chruscev nel ventesimo congresso del Pcus, nel 1956, e che se la revisione della storia può spingersi a trovare un nesso fra l’affermazione del nazismo e la minaccia del bolscevismo, allora si potrebbe anche pensare che per l’isolamento dell’Urss e per le restrizioni della libertà che colpirono i cittadini di quel paese e dei suoi satelliti, un ruolo, chissà quanto piccolo, devono pur averlo giocato le politiche delle potenze occidentali. Ma temo che ci si perderebbe in una discussione infinita.

Vorrei, invece, festeggiare quella vittoria – se mi è permesso – con lo stesso spirito con cui ancora oggi i francesi (e con loro gli uomini liberi del mondo) festeggiano la Presa della Bastiglia. Nessuno si nasconde che il periodo culminante della Rivoluzione Francese abbia preso il nome di Terrore, che siano state tagliate molte teste di innocenti, che gli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza, siano stati portati in giro per l’Europa dalle armate di un imperatore. Il 14 luglio, ugualmente, si scende per le strade e si balla. Così dovremmo fare il 9 maggio.

Un’ultima annotazione. Qualche anno fa, alla radio, ho sentito gli argomenti di un giovane economista rampante. Diceva che da quando non c’è più l’Unione Sovietica, e dunque la minaccia che forti proteste popolari siano anche solo moralmente appoggiate da una grande potenza mondiale, non aveva più senso che le nazioni capitaliste si sforzassero di mantenere lo stato sociale. In sostanza, quell’economista ci spiegava che se fino a ora avevamo avuto l’assistenza sanitaria, le pensioni, la scuola pubblica, dovevamo ringraziare l’Armata Rossa. Be’, per questo io la ringrazio ancora adesso.


3 maggio 2005

Sono passate alcune settimane dalle mie dimissioni dalla direzione artistica del Mantova Musica Festival, e ancora il MMF non le ha annunciate. D’altra parte, nessun altro annuncio è stato fatto, a parte una lettera di invito spedita a organizzatori musicali di tutta Europa (scritta a suo tempo da me, ma inviata sicuramente dopo le mie dimissioni) che riporta ancora il mio nome fra i direttori artistici. Poco male. So che questa trascuratezza non è dovuta a malizia. Però, da qualche parte si deve poter leggere perché mi sono dimesso. Questa è l’occasione.

Dai primi di novembre del 2004 esiste un testo, redatto da me, che indica le linee programmatiche del Mantova Musica Festival 2005. Questo testo, approvato dai promotori del MMF, è stato utilizzato in varie occasioni anche per presentare a enti pubblici, in atti ufficiali, il progetto del Festival, con l’indicazione della mia responsabilità artistica (primus inter pares, insieme a Titti Santini e Vittorio Cosma).

Arrivati a metà aprile 2005, cioè a un mese e mezzo dalla data dell’inizio, ragioni di budget (largamente prevedibili mesi e mesi prima) hanno suggerito tagli al programma, ma con una distribuzione secondo me iniqua, affliggendo in modo particolare gli aspetti innovativi, e con il forte suggerimento di mantenere un occhio particolarmente attento ai nomi di richiamo.

Ho dedicato più di un articolo alla debolezza del concetto di “nome di richiamo” e all’odiosità della distinzione fra “big” ed “esordienti” in un contesto come quello di Mantova, e in presenza di una situazione nella quale il mercato tradizionale è asfittico, mentre decine o centinaia di musicisti e gruppi emarginati dai media riescono tuttavia ad avere un seguito locale molto significativo.

Pensavo che il successo della prima edizione del MMF fosse sufficiente a far capire che le cose stanno cambiando, e velocemente. Invece, quando si è trattato di tagliare qualcosa, gli “eventi” (che drenano la grande maggioranza delle risorse del MMF) sono stati lasciati intatti, mentre si è proposto di ridurre altri spazi, per di più con il famoso “occhio” ai nomi.

Consideravo che il mio mandato nella direzione artistica fosse di:

1. Coordinare le scelte della direzione con quelle della commissione selezionatrice, quindi (semmai) di assicurare un occhio di riguardo proprio ai non-nomi.

2. Contribuire a rinnovare la struttura del Festival, tenendo conto della stagione diversa e della diversa collocazione rispetto alla prima edizione (quindi non “contro Sanremo”).

3. Rimediare all’attenzione scarsa che la prima edizione aveva riservato a istituzioni storiche e recenti dell’opposizione musicale in Italia, dal Nuovo Canzoniere Italiano alle etichette indipendenti più significative (Materiali Sonori e molte altre), ai musicisti organizzati nel Forum Sociale della Musica, alla musica colta: una disattenzione che nel 2004 poteva essere attribuita alla fretta, ma che nel 2005 si rivelerebbe un vero e proprio accanimento contro i musicisti d’opposizione, del tutto inspiegabile alla luce delle premesse che hanno portato alla fondazione del MMF.

Non essendo in grado di realizzare nessuno degli aspetti rilevanti del mio mandato, ritrovandomi costantemente in minoranza in una direzione artistica a tre, e per di più nell’indifferenza dei promotori rispetto ai temi per me più importanti, mi sono dimesso. Spero che il MMF abbia comunque successo, e sono sicuro che porterà qualche traccia del mio lavoro. Ma la somiglianza con i documenti con i quali a suo tempo mi sono impegnato sarà troppo vaga e incerta perché abbia un senso che rimanga la mia firma.

Un abbraccio a tutte le persone di valore che stanno ancora lavorando al MMF.